Oltre la Sonata a Kreutzer

Tre narrazioni per violino e pianoforte – Carlo Bianchi

     Questo saggio è comparso come guida all’ascolto per un concerto di Sergej Krylov e Michail Lifits al Teatro Lirico di Cagliari (15.6.2023). Il programma comprendeva tre Sonate per violino e pianoforte: la Regensonate op. 78 di Brahms, la Sonata n. 2 in sol maggiore di Ravel e la Sonata “a Kreutzer” di Beethoven. Il carattere fortemente, quantunque diversamente narrativo di questi brani ha indotto l’autore a proseguire un argomento già affrontato l’anno prima in occasione di un programma suonato da Gennaro Cardaropoli e Alberto Ferro sempre al Teatro Lirico di Cagliari ovvero un dialogo tra violino e pianoforte brulicante di significati extra-musicali come si possono ritrovare in una narrazione letteraria o un generale racconto di fatti umani. Le Sonate di Brahms, Ravel e Beethoven confermano ognuna a proprio modo come tale analogia possa scaturire da una dichiarata intenzione del compositore di evocare tali narrazioni, ma anche solo da una forma strumentale che conduce i temi a guisa di una vicenda, tra espedienti ‘parlanti’, ricorrenze, svolte improvvise e ritorni a distanza, pure inattesi, fra i vari movimenti.

Pierre Eugene Montezin 1874 1946: Villaggio sotto la pioggia. Olio su tela. Collezione-privata

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  1. Brahms (1833-1897)

Sonata n. 1 in sol maggiore op. 78 Regensonate

  1. Vivace ma non troppo
  2. Adagio – più andante – adagio come I
  3. Allegro molto moderato

     Delle tre, la Sonata di Brahms è quella che reca il riferimento più esplicito: nel titolo, ma anche nel tema del terzo movimento che costituisce una citazione dal Regenlied (“Canto della pioggia”) dello stesso Brahms. Disponiamo inoltre di un commento del compositore riguardo al modo in cui questo movimento dovesse eseguirsi – «gli può dare il giusto carattere una soffice sera di pioggia» (eine sanfte Regenabendsbunde). Suggestione confermata da una lettera al direttore d’orchestra Felix Otto Dessof nel settembre 1879, un anno dopo aver composto la Sonata: «non devi lamentarti della pioggia. Può essere benissimo messa in musica, come ho cercato di fare in una Sonata per violino e pianoforte la scorsa primavera».

     Eppure Brahms non avrebbe mai ricercato una mera impressione naturalistica della pioggia tramite il violino e il pianoforte. Bensì, i riflessi umani che vi si possono scorgere. Non a caso, il tema che apre – e forma, ricorrendo – il Rondò del terzo movimento (es. 1) musicava nel Regenlied op. 59 n. 3 (es. 2)

Es. 1: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, III, bb. 1-5.

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Es. 2: J. Brahms, Regenlied op. 59 n. 3, bb. 1-10.

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un testo del poeta sentimentale e amico d’infanzia Klaus Groth. In quei versi, l’accento cade piuttosto sulla delicatezza introspettiva che un Romanticismo ormai decadente distillava dalla mite pioggia: «cadi pioggia, vieni giù / risveglia ancora quei sogni / che sognai da fanciullo / quando l’acqua schiumava sulla sabbia!» (Walle, Regen, walle nieder / wecke mir die Träume wieder / die ich in der Kindheit träumte / wenn das Nass im Sande schäumte!).

     Prima ancora che nell’op. 78, il motivo su cui è modellata questa strofa iniziale era stato riutilizzato da Brahms già nel successivo Lied della raccolta (es. 3).

Es. 3: J. Brahms, Nachklang op. 59 n. 4, bb. 1-7.

     Sempre su testo di Groth e intitolato Nachklang (letteralmente ‘suono successivo’ ma anche ‘da lontano’ quindi ‘eco’). «Gocce di pioggia dagli alberi / cadete sull’erba verde / lacrime dei miei occhi tristi / bagnate la mia guancia» (Regentropfen aus den Bäumen / Fallen in das grüne Gras, / Tränen meiner trüben Augen / Machen mir die Wange nass).

     Da un lato, Brahms sosteneva che la musica in generale non potesse accompagnare le parole casualmente. Stando alla testimonianza del suo allievo Gustav Jenner, era convinto che il compositore fosse tenuto a un’assoluta comprensione del testo poetico e che prima di accingersi a scrivere dovesse essere in grado di ritenerlo a mente e, addirittura, di recitarlo prestando attenzione a ogni dettaglio della declamazione. D’altronde egli non accettava nemmeno un’idea di associazione univoca fra suono e significato letterario. Nella sua produzione liederistica scelse talvolta testi già musicati da altri compositori (Schubert, Schumann, Weber, Mendelssohn) e in questo caso non esitò a impiegare lui stesso il medesimo motivo per due testi diversi. Inoltre, per quanto riguarda la Sonata, il motivo non rimane confinato al terzo movimento, che nella tonalità di sol minore riecheggia il drammatico do diesis minore dei due Lieder, ma presta il suo incipit puntato e quasi onomatopeico ai luminosi temi principali dei primi due movimenti, rispettivamente in sol maggiore e mi bemolle maggiore.

     Lungi da un’indifferenza al referente extra-musicale, questa varietà di soluzioni musicali pare piuttosto cogliere il carattere sfaccettato del sentimento espresso da Groth. Lungo i tre movimenti, l’oscillazione sonora scaturisce anche da un diversificato trattamento formale dei temi, oltre che dalle tonalità. Il tema del primo movimento conserva solo la nota ribattuta iniziale come un ‘motto’ della Sonata (es. 4)

Es. 4: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, I, bb. 1-4.

 che però nell’Adagio serve per chiudere il motivo iniziale di due battute (es. 5).

Es. 5: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, II, bb. 1-9 [A. Schönberg, Fundamentals of Musical Composition, p. 81].

     Anche la citazione più fedele, quella del terzo movimento, indica fin dalle prime battute l’intento di sfruttare quella cellula in modo più sistematico rispetto alla linea liederistica.

     Spunti che rivelano come l’elaborazione motivica sia una caratteristica precipua dello stile brahmsiamo anche solo all’interno di una singola frase. Quella di dieci battute che apre l’Adagio pare addirittura conferire al motivo a un principio di refrain. L’alternanza rispetto al motivo b e alla sua elaborazione come riportato dall’es. 5 è stata evidenziata da Arnold Schönberg nel suo Fundamentals of musical composition per distinguere i temi di Brahms da quelli del precedente stile classico. Anche se l’inaudita capacità di Brahms nell’elaborare il materiale tematico si coglie pienamente lungo l’arco della forma complessiva. È quindi nei rapporti fra le grandi sezioni di ogni movimento, nonché fra i vari movimenti, che si rivelano anche certe potenzialità narrative della forma a prescindere da un’effettiva ispirazione extra-musicale.

     Nel repertorio strumentale romantico (a partire soprattutto da Schubert) una strategia cui è stata riconosciuta forte valenza evocativa è la continua ripetizione trasformata di un tema, in quanto esso diviene assimilabile a un unico evento-personaggio che attraversa emozioni, moti e ambienti differenti. Procedimento tuttavia da non identificare con la tradizionale forma delle variazioni e nemmeno con la ripetizione variata di una frase come nell’esposizione della Sonata classica. La peculiarità della ‘ripetizione trasformata’ risiede in un cambio di carattere, talvolta progressivo, talvolta improvviso, prodotto da una modifica talvolta minima del motivo. In particolare, si deve sovente alle diversificazioni armoniche tipiche della tonalità romantica ‘allargata’ questo cangiante colore del motivo che si fa veicolo di scarti emotivi all’ascolto. In Brahms esso si intreccia con quella capacità di generare forme complesse anche a partire da un breve motivo che Schönberg chiama entwickelnde Variation («variazione-sviluppo»). Nel primo movimento della Regensonate, le prime due frasi di dieci battute ciascuna si generano da un procedimento lungi dal contrasto o dalla mera ripetizione. La prima frase prende le mosse dal fondamentale motivo di 2 battute esposto dal violino

Es. 6: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, I, bb. 1-2.

seguito da altre 2 battute che elaborano e traspongono l’incipit puntato.

Es. 7: Ibid., bb. 3-4.

A queste seguono altre 2+2 battute di ulteriore sviluppo (e altre 2 come codetta).

Es. 8: Ibid., bb. 5-9.

La predilezione di Brahms per simili frasi (Satz) costituite da 4+4 battute con funzione di presentazione-prosecuzione che lasciano già presagire un certo sviluppo (a scapito di quei Periodi di uguale lunghezza che si chiudono in base a un principio interno di domanda-risposta) trova conferma nella frase successiva (es. 9).

Es. 9: Ibid., bb. 10-15.

     Non si tratta tuttavia di una ripetizione variata, né di una frase contrastante. È piuttosto un’idea secondaria che elabora la cellula iniziale croma-semiminima. A b. 13 tale elaborazione viene ripetuta solo leggermente alterata, eppure con una certa impennata espressiva, anche tramite il cambio armonico del pianoforte. La prima frase ritorna poi ri-elaborata per condurre al secondo tema con anima (es. 10).

Es. 10: Ibid., bb. 36-39.

     Pure leggermente diverso dal primo sia nel profilo sia nella tonalità (dominante re maggiore), esso reca sempre la cellula puntata iniziale come tratto quasi distintivo.

     Nel complesso, l’effetto è alquanto peculiare rispetto all’esposizione di un Sonata classica che in genere prevede due temi diversi, quando non contrastanti, collegati da chiare frasi di transizione. Brahms fa viaggiare l’ascoltatore quasi senza appigli sfruttando l’elemento conduttore della cellula puntata che attenua le distinzioni fra i vari segmenti. L’esperienza si traduce prima di tutto in un allargamento del senso del tempo, anche a parità di lunghezza effettiva. Come notava Niccolò Castiglioni, paragonando la terza Sinfonia di Brahms alla Settima di Beethoven, «la durata musicale non è quella del cronometro ma è come lo spazio dell’architettura: esistono chiese gotiche relativamente piccole il cui interno dà ugualmente il senso dell’immensità e chiese barocche vastissime il cui interno dà il senso dell’esiguo».

    L’ascolto della forma brahmsiana potrebbe essere definito sia ‘spaesamento’, sia viaggio di un protagonista fra svariati paesi differenti o molto simili. Lungo il primo movimento della Sonata, il senso di una narrazione i.e. successione di eventi legati all’incipit viene accentuato nella sezione dello sviluppo vero e proprio. La cellula già presente nei due temi principali viene coinvolta da ulteriori procedimenti di alterazione, frammentazione e mobilità armonica. Questo senso drammatico della forma raggiunge infine un apice tramite il contrappunto (altro aspetto rilevante nella scrittura di Brahms in generale). La cellula in stretta imitazione fra pianoforte e violino conduce alla fine dello sviluppo, e quindi al ritorno dell’esposizione, tramite tuttavia tre ‘false riprese’ che suggellano il concetto di ripetizione trasformata (es. 11).

Es. 11: Ibid., bb. 140-152.

Il motivo iniziale al violino ora in sol minore viene armonizzato ogni volta in modo diverso. Gli scivolamenti degli accordi del pianoforte a bb. 148-151 producono un senso ‘vagante’. Anche nella ripresa effettiva, quando la melodia ritorna in sol maggiore, l’armonizzazione originale ricompare solo dal secondo motivo.

Che solo la cellula puntata costituisca quasi un leitmotiv è confermato dal secondo movimento. Oltre al marchio-refrain all’interno del primo tema, Brahms la sfrutta per costruire una sezione centrale più andante di oltre quaranta battute in mi bemolle minore / si minore (es. 12).

Es. 12: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, II, bb. 24-29.

     Alcuni studiosi l’hanno interpretata addirittura come una ‘marcia funebre’ dopo la quale risuona catartico il ritorno della sezione iniziale. Qui soprattutto si rivela quell’ampiezza di colori e caratteri che contribuiscono alla valenza narrativa del materiale tematico ricorrente – ma anche alla varietà di significati che può assumere un referente poetico pure specifico e dichiarato.

    Il terzo movimento sancisce il massimo punto di incontro fra l’ispirazione extra-musicale e la narratività della forma. Oltre infatti a basarsi su un tema che costituisce la più fedele citazione di Regelied e Nachklang, si verifica un ritorno del primo tema dell’Adagio

Es. 13: J. Brahms, Sonata per vcl. e pf. op. 78, III, bb. 82-85.

e della ‘marcia funebre’ (tranquillo).

Es. 14: Ibid., bb. 112-114.

     A partire da Beethoven (soprattutto dalla nona Sinfonia) l’espediente della reminiscenza ha assunto funzioni altamente simboliche nella musica strumentale tramite un effetto auratico che intreccia sorpresa e riconoscimento. E tuttavia questi temi, per via di caratteristiche comuni al tema del Rondò, ricompaiono tutt’altro che come corpi estranei. Piuttosto, la continuità rispetto al materiale già udito nel corso del movimento finisce con l’accentuare il senso di ‘protagonismo’ della cellula ribattuta iniziale nella dilatazione temporale e varietà di significati che abbiamo evidenziato. L’identificazione delle forme e sonorità della Sonata con un’immagine della pioggia rifugge significati esclusivi ancor più se si considera un probabile, ulteriore riferimento letterario. In particolare a un passo del Faust di Goethe. A quanto riporta Michael Kalbeck, primo biografo autore di un fondamentale monografia su Brahms, pare che in una lettera dedicatoria della prima edizione della Sonata destinata all’amico Heinrich Groeber, purtroppo andata perduta, il compositore abbia ricopiato il motto Komm, hebe dich zu höheren Sphären! Wenn er Dich ahnet, folgt er nach [«Vieni, innalzati a sfere più alte! Quando ti avrà sentito, ti seguirà»] accompagnato da un incipit di una Sonata per violino di Mozart e una di Beethoven entrambe in sol maggiore.

     Il motto è tratto dalla scena finale del Faust e potrebbe indicare una trasfigurazione in senso romantico di quelle due Sonate classiche (quella di Beethoven probabilmente è La primavera op. 24). Tuttavia, autorevoli studiosi come Dillon Parmer si mantengono cauti sul modo in cui Brahms potesse mettere in relazione la musica con l’ascesa della peccatrice Greta nelle alte sfere chiamata dalla Mater gloriosa e predicata a esser seguita dall’animo di Faust. Semmai, tornando all’immagine naturalistica della Regensonate, fu Eduard Hanslick a indicarne il nucleo poetico più autentico. Pur convinto che la musica non possa esprimere sentimenti umani nella loro determinatezza di concetti e situazioni, Hanslick non negava che il gioco delle forme sonore nel suo inevitabile effetto psicologico-emozionale possa farsi simbolo di una dinamica sentimentale – magari coincidente con quella che aveva mosso il compositore. Dinamica che non è a sua volta indeterminata. Se la musica non ne può davvero esprimere e rappresentare gli stessi contenuti, piuttosto stabilisce con essa una catena associativa, fatte di analogie, che nella maggior parte dei casi risvegliano memorie esistenziali (questo lo notò Leonard Meyer). Così, in una recensione della Regensonate pubblicata nel 1889, Hanslick confessava un’intima nostalgia romantica analoga a quella che si può provare al cospetto di un fatto esistenziale, quanto di un’immagine naturale in letteratura. L’isomorfismo gli parve nei moti dell’animo fra l’unicità del sentimento musicale, il mondo della vita e le arti concettuali

    Per me la Regenlied Sonata è come un caro e sincero amico, che non dimenticherò mai, per nessun altro. Nel suo tenero afflato, contemplativo e sognante, e nella sua meravigliosa forza consolatrice, è una cosa unica. Mi commuove quanto la poesia di Goethe Alla luna [anche musicata da Schubert][1] e come quella poesia è ineguagliabile e insostituibile – piuttosto, è come una nostra giovinezza perduta che ci scruta, insorgendo dal di dentro, come da una terra lontana.[2]

[1] Di nuovo inondi la cara valle / silente di luminosa bruma, / e questa volta sciogli alfine / tutta l’anima mia / sopra i miei campi diffondi / il tuo sguardo mitigante, / tenero come l’occhio dell’amica / di fronte alla mia sorte. / Quello che sai così mutevole / questo cuore in fiamme, / voi lo tenete come uno spettro / relegato al fiume, /quando nella squallida notte / d’inverno si gonfia di morte, / o nel fulgore della vita a primavera / scorre sopra le gemme. / Beato chi senza alcun odio / si segrega dal mondo, / tiene al petto un essere amico / insieme con lui godendo / di quello che gli uomini ignorano / o forse disprezzano, / e che pei labirinti del cuore /di notte va errando.

[2] „Mir ist die Regenlied-Sonate wie ein lieber bewährter Freund, den ich für keinen andern hergebe. In ihrer weichen, nachdenklich träumenden Empfindung und ihrer wundersam tröstenden Kraft steht sie ganz für sich allein da. Sie wirkt auf mich ungefähr wie Goethes Gedicht An den Mond und ist, gleich diesem, unvergleichbar, unersetzlich, fast wie die eigene Jugend, die ja wie aus dämmernder Ferne uns daraus anblick“.

Thomas Eakins: Violinist (dettaglio). Olio su tela, 1904,  Galleria d’arte Albright-Knox, Buffalo

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  1. Ravel (1875-1937)

Sonata n. 2 in sol maggiore

  1. Allegretto
  2. Blues (Moderato)
  3. Perpetuum mobile (Allegro)

     In più di una circostanza Ravel dichiarò di essersi ispirato a Edgar Allan Poe per il proprio metodo compositivo, in generale, ma i paralleli più espliciti risalgono al 1927-28, quando portò a termine la seconda Sonata per violino e pianoforte. In due interviste rilasciate a Olin Downes, egli accennò tanto a questa Sonata, che lo aveva impegnato per quattro anni, quanto a certi principi di organizzazione retorica e formale come si possono desumere, per analogia, da un saggio di scrittura letteraria pubblicato da Poe nel 1845. In quella Filosofia della composizione, il narratore e poeta americano illustrava il processo creativo del poema Il corvo onde precisare che la sua scrittura non era affatto istintiva e ‘ingenua’ ma al contrario scaturiva da tecniche fortemente controllate e razionali.

    Dichiarando attenzione alla perfetta forma del verso, all’esatto significato di ogni parola, alla lunghezza degli episodi e delle descrizioni, ai cambiamenti di scena e prospettiva, Poe rivendicava una consapevole ricerca dell’effetto che la lettura, o la recitazione, sortiscono sul lettore, o sull’ascoltatore. Ravel allo stesso modo, a proposito della Sonata per violino e pianoforte, affermava che i temi del primo e del terzo movimento erano già chiari nella sua mente fin dall’inizio («una notte mentre ero in un cabaret qualcosa che ho sentito mi ha suggerito i temi che avrei utilizzato più tardi») ma di aver passato gli ultimi tre anni «a togliere le note non indispensabili». Sebbene egli non scenda nei dettagli formali, è facile immaginare che anche le varie sezioni costruite a partire dai temi, le disposizioni e proporzioni reciproche abbiano assunto la forma definitiva tramite un costante labor limae giusto attento all’effetto che possono sortire.

    La strategia che in maggior misura può essere ricondotta a una narrazione letteraria pare ancora quella della reminiscenza. Uno dei motivi fondamentali del primo movimento, quello che compare a b. 10 nel basso del pianoforte come frase secondaria durante l’esposizione del primo tema (es. 15),

Es. 15: M. Ravel, Sonata per vcl. e pf., I, bb. 1-11.

diventerà il tema principale del Perpetuum mobile (es. 16).

Es. 16: M. Ravel, Sonata per vcl. e pf., II, bb. 1-14.

     La forma-Sonata del primo movimento risulta rivisitata in modo peculiare proprio per via della pregnanza di questa idea secondaria che ritorna ad accompagnare e addirittura sormonta nell’effetto un secondo tema effettivo non molto dissimile dal primo. La sonorità neoclassica risiede altresì in una scrittura che fin dall’inizio accompagna una melodia diatonica con un si bemolle ribattuto quasi stridente. Nel prosieguo del movimento vi sono anche passaggi in cui i due strumenti convergono sia nelle figurazioni sia da un punto di vista armonico, ma nel complesso sussiste una «incompatibilità sonora» – come la definì Ravel – che riconduce a quell’ampia prospettiva del frammentario e del discontinuo tipico del collage, del montaggio e delle poetiche del primo Novecento in generale.

     Tale effetto straniante è ancora più accentuato all’inizio del secondo movimento, blues (es. 17).

Es. 17: L.v. Beethoven, Sonata per vcl. e pf. op. 47, I (Adagio sostenuto), bb. 1-14.

     L’esordio del violino in pizzicato lascia presagire un’atmosfera quasi bucolica nel suo limpido sol maggiore, ma l’entrata del pianoforte colpisce alle spalle l’ascoltatore ignaro di un bicordo in la bemolle. Eclatante caso di tecnica politonale, dunque. Che implica tuttavia una nuova modalità. Già la Bagatella op. 6 n. 1 di Bartók che risale al 1908 e in genere viene considerata il primo esempio di scrittura neoclassica era solo all’apparenza una sovrapposizione fra la bemolle maggiore e mi maggiore, ma di fatto una scala frigia costruita su do. Qui invece gli ambiti di sol e la bemolle trovano una ragione comune nella scalarità blues. Per definizione, le blue notes sono quelle che oscillano fra modo maggiore e minore di una medesima scala. Il mi bemolle con cui inizia il tema alla mano destra del pianoforte risulta una variante minore della scala di sol maggiore.

     Il violino riprende e altera il tema potendo sfruttare non solo le blue notes ma anche i glissandi: quelle ‘svisature’ tipiche del jazz soprattutto nei fiati (se non vogliamo pensare a Joe Venuti). Al pari di altre strategie, la trasposizione di questo genere della musica afro-americana in quella colta europea veniva rivendicata da Ravel come calcolo razionale. Sempre nel 1928, dichiarò alla Rice University di Houston:

     L’esordio del violino in pizzicato lascia presagire un’atmosfera quasi bucolica nel suo limpido sol maggiore, ma l’entrata del pianoforte colpisce alle spalle l’ascoltatore ignaro di un bicordo in la bemolle. Eclatante caso di tecnica politonale, dunque. Che implica tuttavia una nuova modalità. Già la Bagatella op. 6 n. 1 di Bartók che risale al 1908 e in genere viene considerata il primo esempio di scrittura neoclassica era solo all’apparenza una sovrapposizione fra la bemolle maggiore e mi maggiore, ma di fatto una scala frigia costruita su do. Qui invece gli ambiti di sol e la bemolle trovano una ragione comune nella scalarità blues. Per definizione, le blue notes sono quelle che oscillano fra modo maggiore e minore di una medesima scala. Il mi bemolle con cui inizia il tema alla mano destra del pianoforte risulta una variante minore della scala di sol maggiore.

     Il violino riprende e altera il tema potendo sfruttare non solo le blue notes ma anche i glissandi: quelle ‘svisature’ tipiche del jazz soprattutto nei fiati (se non vogliamo pensare a Joe Venuti). Al pari di altre strategie, la trasposizione di questo genere della musica afro-americana in quella colta europea veniva rivendicata da Ravel come calcolo razionale. Sempre nel 1928, dichiarò alla Rice University di Houston:

     Alcuni musicisti mi hanno chiesto perché mai mi sia convinto a scrivere dei blues come il secondo movimento della mia Sonata per violino e pianoforte […] sia pure adottando questa forma popolare della vostra musica, oso dire che nonostante ciò la musica da me scritta è musica francese, musica di Ravel. Sì! Queste forme popolari non sono che materiali di costruzione, e l’opera d’arte appare solamente nella concezione complessiva che ne è maturata, e dove nessun dettaglio è stato lasciato al caso. Inoltre, nel manipolare questo materiale è assolutamente necessario dare loro un’accurata impronta stilistica.

    Eppure, nella costruzione che rende il blues materiale di una scrittura anni 1920, fra politonalità e ostinati ritmici, l’effetto nostalgico indicato in partitura non può scongiurare sensazioni imponderabili per l’ascoltatore, né per il compositore. Così come non potevano ridurre la poesia a un esclusivo calcolo razionale quelle stesse argomentazioni di Poe che ispirarono Ravel. Ha notato lucidamente Ludovica Koch che l’ansia di Poe nel rigettare l’inesplicabile degli effetti poetici, la descrizione di precise tecniche che addomesticano e sfruttano sistematicamente a fini d’artificio le perversità naturali della mente e le duplicità e incostanze delle percezioni si vena altresì di una componente «pseudopoetica, impura e non tecnica» che chiama in causa questioni di percezione e pensiero assolutamente irrisolte.

    Quando Ravel preconizzava che ai compositori è dato perseguire una rotta intermedia tra emozione e intelletto se vogliono creare una musica che abbia significato e durata, e come sia stato Poe a indicare la mediazione tra questi due estremi («il primo dei quali conduce alla fragilità della forma, il secondo a un’astratta rigidità»), intravvedeva un intelletto artistico come causa dell’emozione sottacendo le ‘questioni irrisolte’ di cui avrebbe parlato Koch. Le strategie che fanno del blues un elemento dell’avanguardia francese non potranno mai costringere nostalgie impreviste persino di tipo sociologico. Così come gli ostinati che pervadono anche il Perpetuum mobile del terzo movimento, sbrigativamente definiti bartókiani, non potranno mai risolvere davvero il debito con il mondo delle macchine da officina del padre di Ravel («con i loro ticchettii e i loro ruggiti») che si insinuano persino nel Bolero.

    Quelle macchine e le canzoni spagnole che la madre gli cantava la sera («per cullarmi») furono i primi due maestri dichiarati di Ravel. Il terzo – disse – è stato Poe. Il Corvo e i relativi principi di poetica esposti nella Filosofia della composizione gli parvero estremamente prossimi all’arte moderna francese. Eppure, fu proprio Poe, in un altro saggio intitolato Il principio poetico, a individuare nella musica quella componente che può dirsi la più poetica di tutte proprio perché in larga parte inafferrabile – «quella Grazia che forse appartiene solo all’eternità».

     Alcuni musicisti mi hanno chiesto perché mai mi sia convinto a scrivere dei blues come il secondo movimento della mia Sonata per violino e pianoforte […] sia pure adottando questa forma popolare della vostra musica, oso dire che nonostante ciò la musica da me scritta è musica francese, musica di Ravel. Sì! Queste forme popolari non sono che materiali di costruzione, e l’opera d’arte appare solamente nella concezione complessiva che ne è maturata, e dove nessun dettaglio è stato lasciato al caso. Inoltre, nel manipolare questo materiale è assolutamente necessario dare loro un’accurata impronta stilistica.

    Eppure, nella costruzione che rende il blues materiale di una scrittura anni 1920, fra politonalità e ostinati ritmici, l’effetto nostalgico indicato in partitura non può scongiurare sensazioni imponderabili per l’ascoltatore, né per il compositore. Così come non potevano ridurre la poesia a un esclusivo calcolo razionale quelle stesse argomentazioni di Poe che ispirarono Ravel. Ha notato lucidamente Ludovica Koch che l’ansia di Poe nel rigettare l’inesplicabile degli effetti poetici, la descrizione di precise tecniche che addomesticano e sfruttano sistematicamente a fini d’artificio le perversità naturali della mente e le duplicità e incostanze delle percezioni si vena altresì di una componente «pseudopoetica, impura e non tecnica» che chiama in causa questioni di percezione e pensiero assolutamente irrisolte.

    Quando Ravel preconizzava che ai compositori è dato perseguire una rotta intermedia tra emozione e intelletto se vogliono creare una musica che abbia significato e durata, e come sia stato Poe a indicare la mediazione tra questi due estremi («il primo dei quali conduce alla fragilità della forma, il secondo a un’astratta rigidità»), intravvedeva un intelletto artistico come causa dell’emozione sottacendo le ‘questioni irrisolte’ di cui avrebbe parlato Koch. Le strategie che fanno del blues un elemento dell’avanguardia francese non potranno mai costringere nostalgie impreviste persino di tipo sociologico. Così come gli ostinati che pervadono anche il Perpetuum mobile del terzo movimento, sbrigativamente definiti bartókiani, non potranno mai risolvere davvero il debito con il mondo delle macchine da officina del padre di Ravel («con i loro ticchettii e i loro ruggiti») che si insinuano persino nel Bolero.

    Quelle macchine e le canzoni spagnole che la madre gli cantava la sera («per cullarmi») furono i primi due maestri dichiarati di Ravel. Il terzo – disse – è stato Poe. Il Corvo e i relativi principi di poetica esposti nella Filosofia della composizione gli parvero estremamente prossimi all’arte moderna francese. Eppure, fu proprio Poe, in un altro saggio intitolato Il principio poetico, a individuare nella musica quella componente che può dirsi la più poetica di tutte proprio perché in larga parte inafferrabile – «quella Grazia che forse appartiene solo all’eternità».

     E così quando a causa della Poesia o della Musica (il più avvincente degli stati d’animo poetici) ci ritroviamo sciolti in lacrime, piangiamo, allora, non – come suppone l’abate Gravina – per eccesso di piacere; ma per un qualche petulante, irrequieto rincrescimento della nostra incapacità di cogliere ora, mentre siamo ancora tutti sulla terra, subito e per sempre, le delizie divine ed estetiche di cui attraverso la poesia o la musica non afferriamo che brevi, indistinti barlumi.

René-Xavier Prinet (1861-1946), La Sonata “A Kreutzer”, 1901. Olio su tela. Collezione privata.

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L.v. Beethoven (1770-1827)

Sonata “a Kreutzer” in la maggiore op. 47

  1. Adagio sostenuto – Presto
  2. Andante con variazioni
  3. Presto

     Sebbene Beethoven non pare abbia mai formulato intendimenti extra-musicali riguardo alla Sonata «a Kreutzer», essa si è intrecciata molto più di quelle di Brahms e Ravel con istanze narrative. È il celebre romanzo di Lev Tolstoj. L’esecuzione da parte della moglie pianista dell’io narrante Pozdnyšev con il violinista Truchačevskij non compare prima del capitolo xxiii, ma la sua centralità risiede già dal titolo di quella storia di gelosia sfociata nell’uxoricidio. Forse fu l’attore Vasiliy Andreev-Burlak a suggerire a Tolstoj nel 1887 il tema dell’infelicità-infedeltà coniugale: ma fu poi l’ascolto della Sonata, l’anno seguente, nella villa di Chamòvniki, a spronarlo a scrivere il romanzo. Ad assistere all’esecuzione del violinista J. Lasotta accompagnato al pianoforte da Sergej Tolstoj, primogenito di Lev, vi erano anche Andreev-Burlak e il pittore Il’ja Repin. Tali impressioni suscitò la musica che i tre decisero di renderle ognuno con i mezzi della propria arte. Tolstoj consacrò la sua al primo movimento.

     Possiamo desumere che l’Introduzione-Presto abbia fatto colpo su di lui per via di un dialogo tra violino e pianoforte molto serrato – anche se tutta la Sonata invero è intitolata in uno stile molto concertante, quasi come d’un concerto. La tonalità di la minore certo fu determinante nel rendere quanto mai drammatico il confronto iniziale fra i due strumenti, al cospetto del quieto Andante in fa maggiore e del finale in la maggiore. Ma soprattutto il primo movimento mostra assai più degli altri due quelle caratteristiche di forma e linguaggio che fin dall’inizio abbiamo indicato analoghe a strategie narrative di fatti umani, nell’intreccio di elementi cangianti eppure ricorrenti e smentite di sedimentati schemi formali. Fu una curiosa coincidenza che proprio l’anno in cui Hanslick intravvedeva nella Regensonata di Brahms emozioni analoghe di fenomeni insostituibili, Tolstoj pervenisse tramite quel tumultuoso movimento della Kreutzer a una trama concettuale pressoché identica. Ossia uno stato emotivo che prescinde da azioni e situazioni dotate di ‘senso proprio’ ma viene finalizzato per associazione all’atto delittuoso di Pozdnyšev.

     La musica mi trasporta d’un colpo, immediatamente, nello stato d’animo in cui si trovava colui che ha scritto la musica. Mi fondo spiritualmente con lui e insieme a lui passo da uno stato d’animo all’altro. Ma perché lo faccio, non so. Perché colui che ha scritto, per esempio, la Sonata a Kreutzer, Beethoven, lo sapeva bene come mai si trovava in quello stato d’animo: quello stato d’animo lo aveva indotto a determinate azioni, e perciò quello stato d’animo per lui aveva un senso, per me invece non ne ha nessuno. Ed è perciò che la musica eccita soltanto, non conclude.

      In questo caso, l’indeterminatezza concettuale delle emozioni suscitate dalla musica serve a Tolstoj per fare diventare il primo movimento della Sonata a Kreutzer «un mezzo terribile nelle mani di chiunque capiti», dice Pozdnyšev. Le conflittualità di una situazione coniugale già insostenibile ed esacerbata dalla gelosia nell’esecuzione musicale trovano veicolo di espressione in una dialettica formale e sonora che – va ribadito – fu per lo scrittore una fonte primigenia. L’indeterminatezza di senso e contenuto di emozioni analoghe inducono Pozdnyšev non solo a identificarle con la sua vera situazione ma a trascenderla nel criminoso della sua personalità sociale persino inconsapevole (per un tradimento forse mai avvenuto che rende la carnalità intorno al matrimonio il canale di sfogo delle sovrastrutture umane di cui parla Vittorio Strada). «Conoscete il primo Presto? Lo conoscete?» – chiede ansioso Pozdnyšev al culmine del suo racconto-confessione costruito come un gigantesco flashback – «Uh! Uh! È una cosa terribile quella Sonata. E appunto quella parte»

        E la musica in genere è una cosa terribile […] mi costringe a dimenticarmi di me, della mia vera situazione, mi trasporta in una situazione nuova, che non è la mia; sotto l’influsso della musica mi pare di sentire quello che in realtà non provo, di capire quello che non capisco, di potere quello che non posso. Io lo spiego dicendo che la musica ha la stessa azione dello sbadiglio, del riso: non ho sonno, ma sbadiglio, guardando della gente che sbadiglia; non c’è ragione di ridere, ma rido, sentendo della gente che ride.

          La generale eccitazione che comunica il movimento deriva dalle situazioni talvolta leggermente trasformate, talvolta contrastanti, in cui si ritrova un materiale motivico di partenza altresì onnipresente. Già il contrasto fra la misteriosa Introduzione e il primo tema del Presto rivela un trait d’union in una successione ascendente di due note per grado congiunto (o discendente come sua inversione). Elaborata continuamente fra gli accordi e le pause dell’Adagio sostenuto, che oscilla fra la maggiore-minore, questa diade genera l’incipit e allo stesso tempo l’ossatura dell’appassionato prima tema di otto battute (es. 18a/b).

Es. 18: Ibid. (Presto), bb. 1-9.

Esempio 18b.

    Dopo una ripetizione variata e ampliata che rende la diade ancora più protagonista, giunge un secondo tema a valori larghi, provocando quasi una sospensione del tempo. Segue infatti l’indicazione Adagio (es. 19).

Es. 19: Ibid., bb. 68-98.

     Se non fosse che questo passaggio contrastante all’ascolto scaturisce ancora dalla diade iniziale. Più che un secondo tema, dal punto di vista della relazione fra le note, a prescindere dal ritmo, si tratta di una liquidazione del primo: procedimento che consiste nella riduzione di un tema ai minimi termini, solitamente dalla funzione conclusiva e cui corrisponde un calo di tensione.

     L’esposizione prosegue con un’ulteriore elaborazione del primo tema. Il tradizionale schema espositivo della forma-sonata viene scavalcato da una conduzione tematica sorprendente e diversificata nei caratteri armonici – già sulla strada di tonalità coloristiche romantiche. Inoltre, le concitate figurazioni di accompagnamento che si intrecciano naturalmente alle crome del primo tema rendono drammatici anche i collegamenti. Come sempre, lo sviluppo accentua il senso di conflittualità, in questo caso non fra due temi dal profilo contrastante, bensì sottoponendo la diade e le crome a una serie di procedimenti di alterazione, frammentazione ampliamento e interpolazione. La ripresa poi accentua le elaborazioni e articolazioni dell’esposizione, e prolunga i passaggi virtuosistici.

     L’inusitata lunghezza del movimento, tra le concitazioni derivate dal primo tema e le stasi del secondo, immerge l’ascoltatore in una sorta di tempesta epica, che non a caso, ben prima del romanzo di Tolstoj, ha stimolato la fantasia romantica riportata dal primo biografo di Beethoven, Anton Schindler. Egli riferisce che la Sonata venne concepita pensando a due amanti in preda all’agitazione di un’attesa, allorquando accorre un incidente alla carrozza su cui lui sta viaggiando per raggiungere lei. Al pari di altri aneddoti riportati da Schindler, anche questo viene ritenuto del tutto infondato dai moderni studiosi beethoveniani. Eppure, la prospettiva narratologica figlia dell’analogia adorniana aiuta a ritrovare una motivazione anche per simili narrazioni apocrife. Demistificati quei precisi contenuti con ogni probabilità dalle intenzioni del compositore, l’analisi dell’opera e l’eventuale ricostruzione del processo creativo offrono elementi per ricostruire quello psicologico – lo stato d’animo in cui si trovava Beethoven e con cui Pozdnyšev si fonde spiritualmente senza saperne dei motivi.

     Motivi peraltro riconducibili a due fenomeni specifici che lungo la traiettoria beethoveniana intrecciano spirito e forma musicale: il testamento di Heiligenstadt e la pratica dell’improvvisazione. Sebbene già da tempo Beethoven avesse iniziato a deformare gli schemi classici ereditati da Haydn, Mozart e Clementi (giusto fra le Sonate per pianoforte: dal Largo e mesto dell’op. 10 n. 3 alle due ‘quasi fantasie’ dell’op. 27, al primo movimento dell’op. 31 n. 2) l’accorata confessione scritta il 6 ottobre 1802 a Heiligenstadt sull’onda dell’incipiente sordità diede una supplementare spinta interiore al suo atto creativo in un’esasperata dialettica fra disperazione e coraggio – «un resto di fiamma» (Kropfinger) che non rimase senza conseguenze sulle opere scritte subito dopo. Riguardo poi all’improvvisazione, la smania creativa della Kreutzer scaturì anche da una ricerca di virtuosismo sui due strumenti legata a quella prassi estemporanea che Beethoven in concerto padroneggiava come pochi.

     Inizialmente essa non era stata dedicata al violinista francese Rudolphe Kreutzer, bensì al mulatto George Polgreen Bridgetower del quale Beethoven aveva avuto modo di ammirare le rare capacità sulle quattro corde. Nel concepirla per il pianoforte e un violino obbligato, scritta in uno stile molto concertante, quasi come d’un concerto egli testimoniò anche la sua esigenza di elevare il tasso di gioco e spettacolarità di fronte al grande pubblico, oltre che nei salotti privati, dove solitamente eseguiva le Sonate per pianoforte solo. La ‘prima’ venne data da Bridgetower e Beethoven (che non era ancora menomato) il 24 maggio 1803 alla sala dei concerti del palazzo Augarten di Vienna. Stando a quanto testimonia Ferdinand Ries, Bridgetower leggeva un manoscritto completo, anche copiato se in gran fretta, mentre Beethoven una parte scritta solo qua e là: un ‘canovaccio’ con molte più possibilità/necessità di improvvisare. Non è dato di sapere cosa egli abbia improvvisato esattamente ma un autografo venuto alla luce nel 1965 posseduto dalla Beethoven-Haus di Bonn suggerisce come l’originale parte del pianoforte fosse sensibilmente diversa da quella pubblicata. Forse ancora più libera proprio in ragione delle parti improvvisate.

   Al tempo di Beethoven, l’improvvisazione sovente incideva sulle composizioni fissate poi in notazione scritta soprattutto nel generare le cosiddette forme ‘aperte’. Come nel primo movimento della Tempesta op. 31 n. 2, anche in quello della Kreutzer probabilmente fu la diade ascendente-discendente l’elemento di base che egli improvvisò per creare un’introduzione rapsodica e certe ‘aperture’ nella susseguente forma-sonata. Se così si spiega perché la diade sia l’incessante motore della forma, in quanto elemento-cardine o semplicemente ripetuto, d’altronde sappiamo che per Beethoven l’improvvisazione corrispondeva a un momento di entusiasmo creativo dalla forte carica emozionale tanto nell’esecuzione pubblica quanto nel generale atteggiamento verso la sua arte. Quell’energia tesa a compensare il dolore, che non fu sconosciuto nemmeno al primo Beethoven e già veicolava ideali illuministici, poteva trovare nell’improvvisazione la ragione di finali gioiosi – sempre quella diade nel Rondò della Sonata op. 78 – e altrettanto di primi movimenti drammatici come nella Tempesta o appunto come questo.

      L’alternanza di sonorità scaturite da quella figurazione ricorrente avrebbe trasmesso a Pozdnyšev – assai più che i due movimenti successivi – stati d’animo incompatibili con un salotto «in mezzo a signore scollate» e adatti invece «a certe determinate importanti circostanze e quando occorre compiere certi importanti atti corrispondenti a questa musica». «Dopo questo Presto, essi suonarono ancora il bellissimo, ma usuale e non nuovo Andante con le sue volgari variazioni e il debolissimo finale […] Non suscitarono in me neppure la centesima parte dell’impressione che m’aveva suscitato il primo pezzo». Tutt’altro che volgari ovviamente le variazioni (bollate così forse senza tener conto della terza in fa minore) e per nulla debole il finale, indicato ancora Presto, dove ritornano i virtuosismi sulla diade. Ma quelle forme e armonie meno audaci difficilmente avrebbero potuto attirare la medesima attenzione di un tormentato narratore russo di fine Ottocento. E, al giorno d’oggi, di lucidi esponenti della narratologia musicale.

Augarten in Vienna, Acquaforte acquarellata inizio XIX Secolo Kunsthistorisches Museum 

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