Beethoven, 250 anni di mito. Seconda parte.

Considerazioni sulla ricezione di Ludwig van Beethoven, durante la sua vita e dopo la sua morte. A cura di Jacopo Simoncini.

Opera di Fabrizio Marani

Gli anni di Vittoria

Gli anni centrali della vita di Beethoven, coincidenti all’incirca con i suoi quarant’anni, furono senza dubbio quelli in cui egli riscosse i maggiori consensi. Sono gli anni della settima e ottava sinfonia, delle musiche di scena per Egmont dall’omonimo dramma di Goethe, e di alcune opere d’occasione (le musiche di scena per Re Stefano e Le rovine di Atene), tra le quali spicca quello che fu uno dei suoi più trionfali successi in vita: la Vittoria di Wellington op. 91, scritta per celebrare la vittoria del duca di Wellington su Giuseppe Buonaparte nel 1813, avvenimento che fu accolto molto positivamente dagli anti-francesi.

Oggi si fa fatica anche solo a collegare questo brano con il nome di Beethoven, tale è la povertà musicale che lo caratterizza, ma la sera in cui fu eseguito per la prima volta, insieme alla sinfonia n. 7 – in un concerto a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau – fu il patriottismo tedesco ad avere la meglio e a decretarne il successo incontrastato. (In alto opera di Nicola Slitti).

Ecco il racconto di quella serata dalle pagine della Allgmeine Musikalische Zeitung del 1814: “Riconosciuto da tempo, qui e all’estero, come uno dei più grandi compositori orchestrali, il Sig. van Beethoven ha celebrato in queste esecuzioni il suo trionfo. Una grande orchestra (…) sotto la direzione del compositore, ha offerto una gioia che ha scatenato il più grande entusiasmo. La nuova sinfonia merita in modo particolare un grandissimo applauso e la eccezionalmente calda accoglienza che ha avuto. (…) Per quanto riguarda la “Battaglia”se uno dovesse esprimerla in musica dovrebbe fare proprio quello che è stato fatto qui. Si è piacevolmente sorpresi dal risultato, e in special modo dell’ingegnosa e artistica maniera in cui è stato ottenuto. L’effetto, anche l’illusione, è del tutto straordinaria, e ci induce a concludere senza esitazione che non vi è lavoro paragonabile ad esso in tutto il mondo della pittura musicale”[\]. Dopo l’incoronazione a compositore romantico per eccellenza da parte di E.T.A. Hoffmann, ora Beethoven è riconosciuto, a livello europeo, il più importante compositore di musica sinfonica. E non c’è dubbio che, per i compositori delle generazioni immediatamente successive e ancora per il grande pubblico dei nostri giorni, Beethoven si sia identificato e si identifichi sostanzialmente con le sue opere orchestrali. Ma il tardo Beethoven, quello che va da metà circa degli anni ’10 alla morte nel 1827, sembra disinteressarsi quasi del tutto alle grandiose creazioni sinfoniche: in poco più di 10 anni solo due lavori di grande respiro sinfonico-corale vedranno la luce, la Missa Soleminis op. 123 e la nona sinfonia op.125. Due lavori, tuttavia, di tale immensità, da porre quasi la parola “fine” alla forma della messa, che era stata la gloria del rinascimento polifonico e del contrappunto bachiano, e alla sinfonia che, nata da meno di un secolo come pezzo autonomo da concerto, era già diventata protagonista incontrastata dei grandi eventi musicali. L’ultima fase della vita di Beethoven è dunque scandita dal primato della musica da camera, in particolare dalle ultime sonate per pianoforte e dagli ultimi quartetti per archi.

Quando le idee sono giuste, l’elaborazione non ha alcuna importanza.

Per comprendere quale fosse il clima col quale le estreme opere beethoveniane venivano accolte dai contemporanei, riportiamo due testimonianze relative ai quartetti op. 127 e op. 130. Ludwig Rellstab, poeta e critico musicale, racconta come andò la prima esecuzione semi-pubblica (cioè riservata ad un uditorio scelto) dell’op. 127 a Vienna, nel 1825: “C’erano alcuni tra i migliori virtuosi di Vienna, che provarono diciassette o forse più volte prima di avere l’audacia di suonare la nuova, enigmatica, composizione anche solo in una esecuzione semi-pubblica davanti a pochi conoscenti. Le difficoltà e i segreti degli ultimi quartetti di Beethoven erano così impossibili da conquistare e irrisolvibili, che solamente questi giovani entusiasti furono disposti a riunirsi per compiere un tentativo, mentre musicisti più anziani e famosi dichiararono che il lavoro era ineseguibile. E proprio come i musicisti furono obbligati a studiare, faticando fino a raggiungere le vette più impervie, così il pubblico comprese che la composizione non doveva essere presa troppo alla leggera – e con questa supposizione, fu deciso in anticipo che il brano venisse eseguito due volte di seguito”[2]. Qualche tempo dopo, Rellstab incontra Beethoven nella sua abitazione. Il compositore gli chiede se ha apprezzato il quartetto: “Rispondere a questa domanda mi provocò non poco imbarazzo. (…) Ad oggi ho degli scrupoli ad esprimere la mia convinzione che in questi ultimi, enigmatici lavori di Beethoven, si debbano ricercare solo le rovine della giovinezza e dell’esaltazione virile del suo genio; che è spesso seppellito sotto macerie e rottami i più disordinati. Eppure ho tuttora i miei rimpianti, e spesso mi sovvengono dubbi sul fatto che, forse, non sia la mia impossibilità di comprensione a suscitare la mia impressione”.

La Allgemeine Musikalische Zeitung, invece, nel recensire il quartetto op. 130 alla sua prima esecuzione nel 1826, si scaglia contro la grandiosa fuga finale: “Ma il significato del finale fugato fu per essi [il pubblico] incomprensibile, una sorta di puzzle cinese. Quando gli strumenti devono combattere contro enormi difficoltà, quando ciascuno di essi abbellisce il tema in un modo diverso, quando essi si superano l’un l’altro in progressioni irregolari e innumerevoli dissonanze, quando i musicisti poco fiduciosi di sé stessi, non suonano con assoluta precisione, allora la confusione di Babele è veramente completa; allora abbiamo un concerto che potrebbe piacere solo in Marocco [s/c!]. Forse tutto questo non sarebbe stato scritto se il maestro potesse sentire le sue opere. Tuttavia noi non dobbiamo condannare il lavoro prematuramente; forse verrà un tempo in cui quello che a noi, al primo contatto, apparve così torbido e confuso, apparirà limpido e perfettamente equilibrato”. Sono diversi i punti di unione tra queste due testimonianze: la presa di coscienza dell’estrema difficoltà (compositiva ed esecutiva) e dell’apparente mancanza di senso di questi quartetti; la consapevolezza di non avere gli strumenti cognitivi e la sensibilità per comprendere tali opere. E, col senno di poi, non si può dar torto ai contemporanei per questa mancata comprensione, in quanto davvero Beethoven, nell’ultima fase creativa, raggiunge luoghi musicali insospettabili per chiunque negli anni ’20 dell’Ottocento. La sua concezione formale, la sua scrittura strumentale sono di una tale modernità ed arditezza da anticipare quasi le avanguardie del Novecento storico. E tutto questo attuato non mediante la (presunta) libertà formale che stava facendosi strada nelle nuove generazioni di compositori romantici, e che si sarebbe esplicata nel pezzo caratteristico per pianoforte e nel poema sinfonico, ma mediante un ritorno, apparentemente anacronistico, alle antiche forme della musica strumentale, alle danze stilizzate, al tema con variazione, al contrappunto, alla fuga, perfino agli antichi modi gregoriani.

Opera di Nicola Sutti

Ricercare la modernità nell’antichità, riportarla in vita spazzando via la coltre di polvere dell’usura per ridarle nuova luce, nuova linfa vitale, nuovo calore umano. (E appena il caso di ricordare che questo recupero/reinvenzione di forme e stili del passato sarà una delle possibilità messe in atto dai compositori delle avanguardie del ‘900, dal Wozzeck di Alban Berg al neoclassicismo di Stravinskij). E un Beethoven quasi rasserenato quello delle ultime composizioni, come se, dopo le lotte interne alla forma sonata, che avevano fatto scaturire le grandi concezioni sinfoniche del periodo “eroico”, trovasse solo nella limpida certezza della tradizione lo stimolo alla creazione e il conforto alla condizione di estraneità al suo tempo. E un Beethoven che alza una “Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito”, e lo fa “con intimissimo sentimento” (nel quartetto op. 132, una delle sue pagine più intense, sincere e commoventi), che fa cantare “teneramente” il primo tema del quartetto op. 127, che richiede “amabilità” al pianista nel primo tema della sonata op. 110… e si potrebbe continuare citando altre espressioni analoghe disseminate nelle ultime composizioni, tutte scritte in quella lingua italiana alla quale, per una fase della sua vita, aveva voluto rinunciare in favore del tedesco.

C’è una strana ironia riguardo la figura dell’ultimo Beethoven, la stessa ironia che lo farà apparire, agli occhi dei contemporanei ma ancora di più a quelli dei posteri, una figura più romantica e idealizzata di quanto già non apparisse: questa ironia riguarda il fatto che ora, sulla soglia dei cinquant’anni, tutto gli è concesso, in virtù del fatto di essere uno dei principali compositori europei. La sua figura, dopo l’Eroica, la quinta sinfonia, il Fidelio, le sonate e i concerti del periodo centrale, si staglia quasi al di sopra di tutti, sicuramente al di sopra delle mode musicali dei primi del secolo XIX, che vedevano il trionfo, anche a Vienna, del belcanto italiano e di Rossini. Ma, proprio a causa di questa ironia, le composizioni del periodo terminale non saranno né capite né apprezzate: si legge, tra le righe di chi, colleghi o amici o critici, assiste alle esecuzioni di queste opere, una sorta di rassegnazione a non riuscire (o a non volere) comprenderle, facendo intendere che la grandezza del Maestro e le sue capacità compositive sono fuori discussione, ma sottolineando quanto esse siano scollegate dalle abitudini musicali dell’epoca e lasciando, sostanzialmente, ai posteri l’arduo compito di capirne, finalmente, la portata. Ad acuire questo divario tra opera e ricezione, sta il progressivo e quasi totale isolamento che Beethoven si impone allorquando i suoi problemi di salute (la sordità prima di tutto, ma anche svariati e importanti disturbi fisici che lo condurranno alla morte) assumono connotati troppo severi per consentirgli una normale vita sociale. Il suo essere fuori dal mondo e fuori dal tempo lo rendono un mito, ma contemporaneamente lo allontanano dalla vita musicale e, inevitabilmente, dai facili guadagni: gli ultimi anni della sua vita passano in una continua ricerca di denaro, il più delle volte vana, e in tentativi di vendere le proprie opere ad editori sempre più restii a sborsare le somme richieste. In poche parole, nonostante gli ultimi giorni siano allietati da continue visite e manifestazioni di affetto e stima, Beethoven muore in miseria. Ed è superfluo aggiungere, a questo punto, quanto la sua fine sia, in realtà, perfettamente “romantica”.

“Morì durante un uragano, una tempesta di neve, proprio nell’attimo in cui scoppiava un tuono” scrive Romain Rolland, nel 1903, nella sua tanto celebre quanto poco attendibile Vita di Beethoven [3].

E riguardo a quest’ultimo dettaglio, il giovane musicista Anselm Huttenbrenner, presente sul letto di morte, riporta che “un lampo, accompagnato da un violento rombo di tuono, illuminò di luce accecante la camera del morente. A questo straordinario fenomeno della natura (…), Beethoven aprì gli occhi, sollevò la mano destra, guardò in alto per alcuni secondi, col pugno destro chiuso, e con aria minacciosa come se volesse dire: «Potenze ostili, io vi sfido. Allontanatevi da me. Dio è con me». Pareva che, come un eroico comandante, volesse gridare alle sue truppe che cedevano: «Avanti! Abbiate fede in me. La vittoria è sicura!» Quando il braccio alzato ricadde sul letto, gli occhi gli si chiusero a metà”. [4]

[2] Riportato in Beethoven. Impression by his contemporaries. Dover Pubblications, 2017 [3] R. Rolland, Vita di Beethoven, 1984, Passigli editore

“La gran nona del Ludovico van”

Facciamo un grande balzo in avanti: 1951, il secondo conflitto mondiale si è concluso da pochi anni, la Germania sta tentando di rimettersi in piedi e di far dimenticare, al mondo intero, gli orrori di cui si è resa colpevole. Nell’estate di quell’anno, il Festival di Bayreuth riapre dopo sette anni di silenzio, sette anni conseguenti alla progressiva nazificazione cui era stato sottoposto dal Terzo Reich. A dirigere il concerto inaugurale, uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, il tedesco Wilhelm Furtwangler, reduce da un processo per collaborazionismo verso il nazismo. In programma, la nona sinfonia di Beethoven. Un altro balzo in avanti: 25 dicembre 1989. E passato poco più di un mese dalla caduta del muro di Berlino, quando Leonard Bernstein decide di offrire agli abitanti della città ormai riunificata un grande concerto per celebrare l’epocale avvenimento. Quattro voci soliste, tre cori e i membri di sei tra le più famose orchestre al mondo danno vita a questo evento che ha una risonanza mondiale. In programma, ancora una volta, la nona sinfonia di Beethoven.

Sono fin troppo evidenti, in entrambi i casi, i profondi significati simbolici di cui l’estremo capolavoro beethoveniano si fa portavoce. Simbolo di rinascita, di riscatto dagli orrori della guerra, di ricostruzione (anche intellettuale e morale) di una nazione nel primo; simbolo di uguaglianza, fratellanza e libertà (Bernstein volle cambiare il testo di Schiller, da “Freude” – “Gioia’” – in “Freiheif – “Libertà”) nel secondo. Quale sia stata la portata dell’ultima sinfonia di Beethoven nella storia della musica (e non solo) è difficile spiegarlo in poche righe. Il compositore stesso era consapevole di aver concepito qualcosa di più grande, di sensibilmente diverso da ciò a cui il pubblico era abituato: “(…) una grande sinfonia del tuffo nuova (…). Ha un gran finale con cori e voci soliste, alla maniera della mia fantasia corale, ma di maggiore ampiezza”; “Quanto alla sinfonia, che è la più grande che abbia io scritto e per la quale mi sono già state fatte offerte persino da parte di artisti stranieri (…)” [5]. Anche il recensore del concerto del 7 maggio 1824, in cui si tenne a battesimo la nona sinfonia, oltre a brani dalla Missa Soleminis, manifesta senza mezzi termini la sua stupefazione: “Dove posso trovare le parole per dire ai miei lettori di questi capolavori la cui grandezza ha trasceso un’esecuzione che ha lasciato molto a desiderare, specie nelle sezioni vocali, dato che tre prove sono insufficienti per un lavoro che presenta tante straordinarie difficoltà. Nonostante tutto, l’impatto fu indescrivibilmente meraviglioso e convincente; esso fu acclamato con urla d’entusiasmo indirizzate al maestro dai cuori straripanti, poiché il suo inesauribile genio ci aveva aperto un nuovo mondo e svelato un magico segreto di musica divina, mai udita prima, mai sospettata. Il Finale [della Nona] si apre come il fragore di un tuono.

Come in un pot-pourri, tutti i temi principali già uditi vengono ripetuti in rapida successione, come riflessi in uno specchio; poi sono nuovamente fatti sfilare in brillante schieramento. Il contrabbasso mormora un recitativo che sembra chiedere ‘Cosa accadrà ora?’, dopo di che essi rispondono a sé stessi con un delicato motivo in maggiore, e poi tutti gli altri strumenti si uniscono progressivamente a loro con combinazioni straordinariamente belle. Alla fine, dopo un invito del basso solista, l’intero coro intona con maestoso splendore il canto in lode della gioia. Il critico ora siede al suo tavolo, ha riconquistato la sua compostezza, tuttavia non può dimenticare l’emozione di quel momento. Arte e verità qui celebrano il loro più glorioso trionfo; è tuttavia impossibile per il resto del poema, composto parte come coro, parte come voci soliste, con diversi tempi e cambi di tonalità, raggiungere un comparabile effetto, non importa con quale perfezione le singole sezioni siano trattate. I più ardenti ammiratori del compositore sono profondamente convinti che questo straordinariamente singolare finale sarebbe ancora più efficace se riassunto in una forma più concentrata. Anche il compositore sarebbe di quest’avviso, se il fato crudele non gli avesse tolto la facoltà di udire le sue creazioni” [6] Nonostante le lodi e la consapevolezza di aver assistito a un evento straordinario, c’è però ancora qualcosa che sfugge alla comprensione del critico e, forse, del pubblico: di nuovo ritorna il rimprovero, già rimarcato più volte nelle opere della giovinezza, di mancare di unità e di compattezza, di osare troppe modulazioni e troppi cambi di tempo. In una Vienna dominata dal belcanto rossiniano, così ordinato e accomodante, non è ancora tempo per i voli pindarici del finale della nona sinfonia – così come non lo era stato per la vocalità del Fidelio.

Ritratto Jacopo Simoncini” Andrea Ciardi

Ma il recensore sottolinea anche un altro aspetto fondamentale per comprendere la ricezione della sinfonia (e non solo di quella, ma anche di molte altre composizioni beethoveniane), ovvero la estrema difficoltà esecutiva di questa partitura, alla quale cantanti e musicisti erano evidentemente impreparati e per la quale non vennero fatte sufficienti prove d’insieme. Problema, questo, di cui si fece carico Richard Wagner quando, nel 1846, volle proporre la nona sinfonia a Dresda, dove era poco conosciuta. In qualità di direttore, Wagner riuscì in un lavoro di prova minuziosissimo e carico di entusiasmo, teso ad “ottenerle un vero trionfo” ’[7], cosa che puntualmente accadde e che consentì la ripresa della sinfonia in quella città anche negli anni a seguire. Dobbiamo proprio a Wagner la mitizzazione della nona sinfonia, vista come anticipatrice della sua concezione di opera d’arte totale: Beethoven, nel finale cantato, avrebbe infranto le barriere della musica assoluta ricongiungendo la musica alla parola. Considerata la mole di scritti wagneriani su Beethoven e in particolare sulla nona sinfonia, e considerato l’impatto che ebbero le novità introdotte da Wagner nella concezione del dramma musicale da metà ottocento in poi, era inevitabile che l’ultimo capolavoro sinfonico beethoveniano diventasse una pietra miliare per le generazioni a seguire, e che si caricasse di significati altri che, come abbiamo visto, perdurano fino ad oggi. Ne è testimonianza la riverenza che gli tributano i compositori delle generazioni successive, restii anche solo ad intraprendere la stesura di una sinfonia (Brahms in particolare) e comunque a superare il fatidico numero 9 (soltanto pochi compositori raggiungeranno o supereranno questo numero: Bruckner terminerà la sua vita con una nona incompiuta, Mahler inizierà una decima senza riuscire a completarla, Sostakovic arriverà a scrivere una quindicesima sinfonia, ma in tempi in cui Beethoven non incute più nessun timore reverenziale).

Ne è testimonianza, in tempi a noi più vicini, anche il cinema, con i due biopic Amata immortale [8] lo e Beethoven [9] nei quali la rievocazione della “prima” della nona sinfonia è usata in altrettanti momenti cruciali: nel primo film, Beethoven/Gary Oldman sale sul podio a fianco al direttore e, mentre ascolta (o meglio non ascolta, causa sordità) il finale della sinfonia, rievoca nella sua mente la fanciullesca fuga da casa e la corsa (a tempo di musica) verso la libertà di un fiume nel quale si immerge (e che in realtà scopriamo essere, quando la cinepresa si alza, nient’altro che il firmamento stellato – retaggio forse del kantiano “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” che Beethoven ben conosceva?); nel secondo film, una improbabile giovane copista (interpretata dalla pur splendida Diane Kruger), chinata in mezzo agli orchestrali, aiuta un impacciato Beethoven/Ed Harris a dirigere la sua nona, che egli non può sentire sempre a causa della sordità, anticipando con le braccia i gesti direttoriali e voltando verso il pubblico, alla fine dell’esecuzione, il compositore, ignaro delle ovazioni che sta ricevendo. Al di là della veridicità o meno di questi episodi, che si perdono nella aneddotica, è evidente l’intento, in particolare nella prima pellicola, di far apparire la nona sinfonia come il momento del riscatto del compositore da una esistenza di stenti e sofferenze prima di tutto familiari, che ne avrebbero segnato la vita interiore, influenzandone anche la produzione artistica. Una visione prettamente romantica quindi, che fa coincidere l’opera d’arte con le vicende legate alla vita. Ma, rimanendo in ambito cinematografico, non c’è sicuramente niente di più iconico e di più familiare al pubblico dello sguardo schifato e sofferente di Alex, in Arancia meccanica [10], costretto dallo Stato alla tanto bestiale quanto efficace “Cura Ludovico”, ovvero assistere, senza poter distogliere lo sguardo, a filmati di ultra-violenza e onnipotenza nazista accompagnati dalle note della amata nona sinfonia del tanto venerato “Ludovico van”. Ed è nella conclusione del capolavoro di Kubrick che, probabilmente, si traduce in termini visivi la potenza dirompente e anticonformista che il finale sui versi di Schiller ha sempre portato con sé fin dalla sua prima apparizione: sulle note dell’apoteosi finale della partitura, l’amplesso liberatorio di Alex, ritornato finalmente in sé, davanti ad un pubblico di borghesi benpensanti e plaudenti, non rappresenta forse al meglio la carica liberatoria, la bomba a orologeria che Beethoven fece esplodere la sera del 7 maggio 1824 davanti al compassato pubblico viennese, cambiando per sempre il corso della storia della musica? “Ma voi, che avete sin qui seguito questa cerimonia, dominate la vostra mestizia! Non l’avete perduto, l’avete trovato. Solo quando la porta della vita si serra alle nostre spalle, quella del tempio dell’immortalità si spalanca. Ora egli è riunito ai Grandi di tutti i tempi, per sempre inviolabile. Congedatevi dunque dal suo sepolcro afflitti, ma temprati. E se mai vi accadrà di venir sopraffatti, come dal temporale che incombe, dalla potenza delle sue creazioni, se le vostre lacrime scorreranno al cospetto di una generazione oggi ancora non nata, ricordatevi di quest’ora e pensate: noi ceravamo quando fu sepolto, e quando morì noi abbiamo pianto” [11]

[1] Riportata in www.lvbeethoven.it
[2] Riportato in Beethoven. Impression by his contemporaries. Dover Pubblications, 2017 [3] R. Rolland, Vita di Beethoven, 1984, Passigli editore
[3] Le lettere di Beethoven, a cura di E. Anderson, Torino, Ilte, 1968
[4] v. nota 1
[5] Le lettere di Beethoven, a cura di E. Anderson, Torino, lite, 1968, pagg. 1235, 1262.
[6] Allgemeine Musikalishe Zeitung, in www.lvbeethoven.it
[7] Wagner: scritti su Beethoven, a cura di P. Mioli, Manzoni editore.
[8] Immortai beloved, regia di Bernard Rose, Gran Bretagna/USA, 1994.
[9] Copying Beethoven, regia di Agnieszka Holland, USA/Germania/Ungheria, 2006.
[10] A clockwork orange, regia di Stanley Kubrick, Gran Bretagna, 1971.
[11] F. Grillparzer, Orazione funebre tenuta accanto alla bara di Beethoven il 29 marzo 1827, in Franz Grillparzer: Beethoven, a cura di A. Focher, 1995, SE editore

L’ autore

Jacopo Simoncini

Nato a Carrara nel 1979, è diplomato in pianoforte e composizione al Conservatorio G. Puccini della Spezia e laureato in discipline dello spettacolo all’Università degli studi di Pisa. Come compositore, è autore di numerose composizioni vocali e per ensemble da camera eseguite, tra l’altro, a Milano (Museo del ‘900), Pescara (Alviani Art Space), Camino al Tagliamento (Festival Atti Vandalici 2013), Riva di Chieri (Festival Musiche in mostra 2019), Grottammare (Festival Liszt 2019), La Spezia e Sarzana. Nel 2018 vince il primo premio al 2° Concorso Nazionale “Poesia in musica” di Ascoli Piceno, con il brano e questo giorno di azzurri profondissimi per flauto e pianoforte. Da sempre appassionato di musicologia, ha scritto numerosi articoli e recensioni per riviste locali e online. Attualmente collabora con La Nuova Eroica. Ha insegnato Teoria e Storia della musica nelle curvature musicali di alcuni licei classici. Al momento è docente di scuola secondaria di primo grado.

 Articolo apparso a pagina 75 del terzo numero della rivista

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