Hess 109 Fidelio (Leonora), opera in tre atti (prima redazione) op. 72/1

Hess 109 Fidelio (Leonora), opera in tre atti (prima redazione) op. 72/1, 1804 – novembre 1805, pubblicata in partitura, a cura di Erich Prieger, a Lipsia, edizione privata, 1908-10; in riduzione per pianoforte, a cura dello stesso, ibid., Breitkopf e Härtel, 1905 (seconda edizione, aumentata e corretta, 1907). Nuova edizione a cura di Willy Hess, Supplemente zur Gesamtausgabe, Breitkopf e Härtel, Wiesbaden, 1967. – Hess 109 B. 72a – KH. 72/1 – L. III, p. 148 – N. 72a – T. 125 (p. 61)

Della Ouverture (n. 2) esistono due copie rivedute: una con varie lacune, proveniente dalla successione Schindler, in possesso della casa Breitkopf e Härtel, ritoccata e completata da Mendelssohn, pubblicata dalla stessa casa editrice (parti d’orchestra nel febbraio 1842, partitura nell’ottobre dello stesso anno); l’altra, mancante delle parti dei tre tromboni (che invece si trovano nella prima) e conservata già nei fondi della Preussische Staatsbibliothek (oggi, crediamo, in deposito nella biblioteca dell’Università di Tubinga), pubblicata da Otto Jahn, Lipsia, Breitkopf e Härtel (partitura alla fine del 1853, parti staccate nel maggio 1854). La partitura completa originale dell’opera dovette andare molto presto dispersa; ma di tutti i 18 numeri di musica che la compongono esiste la copia (di qualcuno anche il manoscritto originale) nella raccolta di autografi della Preussische Staatsbibliothek, nell’archivio della società degli Amici della Musica di Vienna o nella Beethovenhaus. L’opera non fu mai pubblicata durante la vita di Beethoven. Nella edizione per canto e pianoforte della seconda redazione, pubblicata da O. Jahn nel 1853, furono inclusi integralmente, perché rimasti immutati, i nn. 15 e 17 della prima; mentre dei nn. 1, 2, 3, 5, 8, 10, 11, 12 14, 16 e 18 vennero dati in nota i passi originali differenti dalla prima redazione. Dopo un lungo e paziente lavoro di venticinque anni il musicologo Erich Prieger riuscì nel 1905 a ricostruire l’intera partitura; secondo questa ricostruzione l’opera fu data a Berlino, nel centenario della prima rappresentazione viennese, il 20 novembre di quell’anno stesso e stampata poi in edizione privata da Oscar Brandstetter, Lipsia, nel 1908-1910. La riduzione per canto e pianoforte, curata egualmente dal Prieger, fu pubblicata in due edizioni, rispettivamente del 1905 e 1907, da Breitköpf e Härtel. Nel 1912 la casa Tischer e Jagenberg, Köln-Bayenthal, rilevò la rimanenza degli esemplari per canto e pianoforte e l’intero materiale di canto e orchestra. Nel 1967 la partitura è stata nuovamente pubblicata in edizione critica, a cura di Willy Hess, dalla casa Breitkopf & Härtel di Wiesbaden.

Gli abbozzi dell’opera si trovano in due quaderni di cui Nottebohm ha dato una descrizione abbastanza estesa per quanto sempre sommaria: il primo, da noi chiamato «Quaderno Dell’Eroica» perché contenente in massima parte abbozzi per questa sinfonia, riguarda i cinque primi numeri dell’opera; il secondo, a cui abbiamo invece dato il nome di «Quaderno del Fidelio», appunto perché per la quasi totalità dedicato all’opera, si riferisce ai numeri finali del primo atto e a tutto il secondo.

La storia di questa prima redazione è connessa alle vicende del teatro an der Wien e dell’altra opera, “Il fuoco di Vesta”, di cui si è già parlato.

Il libretto, allestito per Beethoven da Joseph Sonnleithner, ricalcava quello dell’opera «Léonore ou I L’amour conjugal Fait historique / en deux actes / et en prose mêlée de chants / Paroles de J. N. Bouilly / Musique de P. Gaveaux / représentée pour la première fois à Paris sur le Théâtre Fejdeau le Ier ventose ou 6m de la République Française» (19 febbraio 1798). «Fait historique», perché traeva la sua origine da un «fatto» realmente avvenuto all’epoca del Terrore: una nobildonna di Turenna, introdottasi travestita nel carcere dove era rinchiuso il marito, era riuscita a farlo fuggire (aiutata in questo dallo stesso Bouilly, allora governatore del dipartimento di Tours, che ne parla nelle sue memorie). Drammi del genere, portati a Vienna dalle scene francesi, avevano incontrato il favore del pubblico; soprattutto, per la loro eccellenza artistica, quelli di Cherubini: Lodoiska, L’osteria portoghese, Le due glorie. Aggiungiamo che il soggetto dell’amor coniugale eroico non era nuovo nella letteratura europea che armonizzava con certe idealità di Beethoven.

I suddetti modelli francesi seguivano la forma dell’opéra comique, mista, come d’altronde nel Singspiel tedesco, di recitazione in prosa o anche in poesia (in luogo del recitativo secco della grande opera), e di musica, cantata e suonata: forma nella quale, per citare qualche grande esempio, Mozart aveva scritto fra l’altro lavori Teatrali pur tanto differenti fra loro come “Il ratto dal serraglio” e “Il flauto magico”, e Weber avrebbe scritto circa venti anni dopo il “Freischutz” e l'”Oberon”. La musica composta da Gaveaux per il libretto di Bouilly non dovette essere ignorata da Beethoven ed esercitò sulla sua opera qualche leggera influenza di carattere esterno; ma a parte ogni altra considerazione, naturalmente, sulla grande differenza di levatura fra i due artisti, è ovvio riconoscere che, per il solo fatto di aver messo in musica episodi di grande importanza drammatica dall’altro lasciati alla recitazione pura e semplice, come per esempio tutti quelli che riguardano Pizarro, Beethoven sia più profondamente e intensamente penetrato nell’essenza del dramma stesso.

Anche di un’altra opera bisogna parlare, composta da Ferdinando Paer su libretto di Giacomo Cinti ricavato egualmente da quello di Bouilly, ma con testo italiano e senza parti recitate: “Leonora ossia l’Amor coniugale”, rappresentata a Dresda il 3 ottobre 1804.

E’ ancora oggi troppo noto e ripetuto l’aneddoto che si fa derivare da una pretesa confidenza fatta dal vecchio Paer al musicista Ferdinando Hiller, e da questi riferita a Berlioz, che la ha riportata in un suo noto scritto, secondo cui Beethoven, assistendo ad una rappresentazione della suddetta opera a Vienna in compagnia dell’autore, gli avrebbe detto ad un certo punto, pieno di ammirazione: «Oh, quanto è bello! Quanto è interessante! Bisogna proprio che io componga questo!» In realtà la Leonora del Paer, composta nel 1804, fu rappresentata a Vienna soltanto l’8 febbraio 1809, cioè tre anni e tre mesi circa dopo la prima del Fidelio; e a meno che non si voglia pensare che Hiller (o lo stesso Paer) abbiano lavorato di fantasia, bisogna ammettere che la frase di Beethoven sia stata pronunciata per qualche altra e diversa occasione e che la memoria, a tanti anni di distanza, abbia tradito Paer. Questi infatti, che aveva soggiornato già a Vienna nel 1797 e nel 1802 si era trasferito a Dresda come direttore di quel teatro di corte, al principio dell’anno successivo aveva fatto ritorno nella capitale austriaca, trattenendovisi almeno fino all’aprile per la composizione e l’esecuzione del suo oratorio “Il Santo Sepolcro”. È probabile che in tale occasione i due maestri, fra i quali correvano rapporti di buona amicizia, abbiano parlato insieme dei loro progetti, e che Paer abbia messo a parte Beethoven dell’opera teatrale che aveva per le mani, informandolo magari di come aveva trattato o pensava di trattare questo o quell’episodio, leggendogliene qualche frammento al pianoforte o ragguagliandolo su qualche impostazione strumentale o schema costruttivo. Potrebbe anche darsi che Beethoven abbia avuto modo di conoscere — non sapremmo dire in qual modo — la partitura dell’opera dopo la sua prima rappresentazione del 3 ottobre 1804 a Dresda (il Fidelio fu terminato nell’estate del 1805). Si possono così spiegare con l’Engländer le rassomiglianze od analogie di qualche elemento primo formativo: naturalmente, come sempre, senza esagerare e ricordandosi bene in ogni momento, come lo stesso Engländer dice nella conclusione del suo studio, che «due mondi separano la musica dell’uno da quella dell’altro maestro».

Non ci sembra al contrario che si possa parlare di alcuna relazione o interferenza del Fidelio beethoveniano con una quarta opera teatrale del medesimo soggetto e derivata anch’essa dalla stessa fonte: “L’amor coniugale”, libretto di Gaetano Rossi, musica di Simone Mayr, rappresentata la prima volta al teatro San Benedetto di Venezia nell’estate 1805.

Dal confronto dei testi di Bouilly (per la musica di Gaveaux), di Cinti (per la musica di Paer) e di Rossi (per la musica di Mayr), con quello apprestato da Sonnleithner per il Fidelio, si vede facilmente con quale maggiore serietà e dignità il soggetto sia stato trattato da quest’ultimo. I due libretti italiani, che del resto non sono neppure dal punto di vista letterario dei capolavori, cadono spesso nel buffonesco e d’altro canto abbondano di elementi retorici o di «maniere» melodrammatiche. Nella Leonora del Cinti il nome classico di Fidelio è stato volgarizzato in quello di Fedele; Pizarro canta da tenore, Jaquino (Giacchino) da basso; e tutta differente è la fisionomia del personaggio di Marcellina. Nell’Amor coniugale del Rossi (pure in due atti) la paura di riferimenti a fatti troppo «vicini», che già aveva indotto Bouilly, come egli stesso dice nelle sue memorie, a trasportare l’azione in Ispagna, ha agito ancor più fortemente, inducendo il librettista a collocarla ancora più lontano, in Polonia; invece di vittime «di un potere arbitrario» e di «prigionieri di stato» si parla di fatti e di prepotenze private: Leonora-Fidelio è diventata Zeliska-Malvino; Marcellina, Floreska; Pizarro, Moroski; Florestano, Amorveno. Rocco, Peters; Don Fernando, Ardelao e non si tratta più di un ministro che viene a ristabilire la giustizia in nome del suo re, ma di un fratello di Amorveno che, con una compagnia di «villani» da lui assoldati, affronta il malvagio signorotto, antico rivale in amore del prigioniero, il quale appunto per questa ragione di gelosia personale giace in carcere. Manca interamente il personaggio di Jaquino.

La composizione del Fidelio iniziò alla fine del 1803 o nei primi mesi del 1804 e terminò nel settembre 1805. Ma il libretto, inviato alla censura per il «nulla osta», venne respinto con una secca nota in cui si diceva che non era «adatto all’esecuzione». Sonnleithner dovette scrivere una elaborata supplica allo «Stimatissimo Imperiale e Reale Ufficio di Polizia», assicurando che il soggetto dell’opera originale francese era piaciuto molto all’imperatrice regina, che da esso era stata tratta già un’altra opera in lingua italiana musicata da Paer e rappresentata a Dresda e a Praga; spiegando che il signor van Beethoven vi aveva lavorato per un anno e mezzo, che si erano fatti già i preparativi perché la rappresentazione avvenisse in occasione dell’onomastico di S. M. Imperiale e Reale; che, svolgendosi l’azione nel XVI secolo e in Ispagna, non vi poteva essere celata alcuna altra «allusione»; che si trattava infine di un edificante episodio in cui la virtù femminile trionfava su un malvagio governatore intento a perseguire soltanto una sua vendetta privata. Tre giorni dopo il divieto, grazie anche all’intervento di autorevoli amici del Sonnleithner, veniva revocato e la rappresentazione permessa a condizione che si portasse qualche modificazione alle scene più brutali ” der gröbsten Szenen” (si trattava senza dubbio, commenta l’Unger, «dell’attenuazione delle parole e degli atti del despota Pizarro»). Ma tuttavia l’opera potè andare in scena soltanto il 20 novembre a causa delle difficoltà della preparazione musicale, aumentate, pensiamo, dallo stato d’inquietudine generale che doveva regnare in quei giorni a Vienna, minacciata da vicino dall’esercito napoleonico, e da questo poi militarmente occupata.

Gli interpreti di canto furono il basso Weinkopf (Don Fernando), il basso Sebastian Mayer (o Meier) (Pizarro), il tenore Joseph Dommer (Florestano), il soprano Anna Pauline Milder (Leonora), il basso Rothe (Rocco), il soprano Luise Müller (Marcellina), il tenore Caché (Jaquino).

Il manifesto del teatro designava l’opera con il titolo di “Fidelio oder die eheliche Liebe” (Fidelio o l’amor coniugale); e di Fidelio parlano tutti i resoconti teatrali della rappresentazione. Beethoven avrebbe preferito, a quanto i biografi riferiscono, lasciare all’opera il titolo originale di “Leonora”, ma la direzione del teatro volle mantenere quello di “Fidelio” per evitare l’omonimia con la Leonora di Paer; Fidelio continuò ad essere chiamata l’opera anche nelle redazioni successive del 1806 e 1814. Il titolo di Leonora rimase, vivente Beethoven, solo al libretto della seconda redazione, all’edizione e parti d’orchestra della grande Ouverture (Leonora n. 3) della seconda redazione (Breitkopf e Härtel, luglio 1810) e a quella della riduzione per canto e pianoforte, pure della seconda redazione, curata da Carlo Czerny e pubblicata egualmente nel 1810. L’opera fu data il 20, 21, e 22 novembre, con esito sfavorevole. In realtà non si sarebbe potuto trovare un momento meno propizio al successo. La città occupata da pochi giorni dalle truppe francesi; la nobiltà, gli intellettuali, la parte più colta e rappresentativa di quel mondo privilegiato che amava Beethoven, assente, ritiratasi nelle residenze di campagna; assente la famiglia imperiale e reale con tutta la corte; i pochi rimasti poco disposti con ogni probabilità a recarsi ai teatri, frequentati in gran parte invece dagli stranieri occupanti; e questi stessi forse più inclini, dopo i disagi e le asprezze della vita di guerra, a cercare la «divagazione» di spettacoli di carattere leggero e divertente in un senso più comune e magari banale che non ad assistere a rappresentazioni serie. Tutto ciò dovette influire non solo sul pubblico, ma sugli artisti stessi: i quali del resto, anche per la non perfetta preparazione e la difficoltà di certe parti vocali, non si mantennero sempre all’altezza del loro compito (eccettuata forse la Milder che tuttavia, per la sua giovinezza, non poteva allora possedere quell’eccellenza di mezzi tecnici e di doti interpretative di cui poi avrebbe dato prova nelle rappresentazioni del 1814). D’altra parte i resoconti della stampa dimostrano quale e quanta fosse l’incomprensione del pubblico e della critica, o meglio ci rivelano quanto Beethoven, pur non possedendo nel campo della composizione teatrale, in cui si cimentava per la prima volta, la profonda esperienza acquisita già da tempo in quello strumentale, si fosse distaccato dal comune modo di sentire ed elevato dalle consuetudini del tempo. II soggetto.

Florestano, nobile spagnolo, ha svelato i delitti di Pizarro; ma, vittima di una falsa accusa mossagli da quest’ultimo, è stato fatto incarcerare e giace da più di due anni nella segreta di una prigione di stato vicino a Siviglia, di cui lo stesso Pizarro ha avuto la nomina di governatore. Per disfarsene, Pizarro ha deciso di farlo morire lentamente di fame assottigliandogli i viveri giorno per giorno.

Leonora, moglie di Florestano, travestita da uomo con il nome di Fidelio, riesce a farsi accettare come servo da Rocco, custode della prigione, sospettando che qui sia rinchiuso il marito e decisa a fare di tutto per salvarlo. Marcellina, figlia di Rocco, si innamora di Fidelio, respingendo la corte di Jaquino, portiere della prigione. Leonora-Fidelio è costretta a fingere di assecondarla per guadagnarsi sempre più la benevolenza e la fiducia di Rocco, dal quale viene così a sapere che in una segreta giace incatenato un prigioniero politico condannato da Pizarro a morire di fame.

La lettera di un amico informa Pizarro che il ministro, avendo avuto sentore che in quella prigione sono rinchiuse parecchie vittime di un potere arbitrario, è partito per farvi una sorpresa e ristabilire la giustizia. Allarmato, il governatore decide di dare morte senz’altro a Florestano, facendone sparire ogni traccia prima dell’arrivo del ministro. Dispone le scolte che lo avvertano subito appena la carrozza del ministro sia avvistata sulla strada di Siviglia e chiama segretamente Rocco per affidargli il delittuoso incarico. Rocco trova la forza di rifiutare, ma si adatta ad un compromesso: Pizarro verrà ad uccidere di sua mano il prigioniero dopo ch’egli avrà scavato la fossa ove seppellire il cadavere.

Rocco e Leonora-Fidelio (che è riuscita ad avere il permesso di accompagnarlo) scendono nel sotterraneo e si accingono a sgomberare dalle macerie una vecchia cisterna entro cui deve essere scavata la fossa. Leonora riconosce alla voce e alla vista il prigioniero, ma non gli si rivela, restando in trepidante attesa degli eventi. Scavata la fossa, Rocco con un fischio avverte Pizarro che tutto è pronto. Pizarro travestito scende nel sotterraneo e dopo essersi rivelato a Florestano alza su di lui il braccio armato di pugnale. Leonora fa scudo del proprio corpo a Florestano fermando il gesto omicida e al reiterato tentativo dell’assassino punta contro di lui una pistola. Nello stesso momento la tromba della scolta annunzia l’arrivo della carrozza del ministro Don Fernando; Pizarro lascia andare la vittima per risalire precipitosamente, accompagnato da Rocco, nel cortile esterno della prigione; qui trova il popolo e i prigionieri in rivolta contro di lui. Giunge il ministro, si rende rapidamente conto di ogni cosa, scende a sua volta nel sotterraneo, libera Florestano, suo vecchio amico da tempo creduto morto e di cui conosceva l’innocenza, e condanna Pizarro a restare imprigionato al posto della vittima. Acclamazioni festanti salutano il ministro ed inneggiano al nobile coraggio di Leonora, eroina dell’amore coniugale. L’Ouverture eseguita nelle rappresentazioni del 1805 è in ordine di tempo, come già detto, la seconda delle quattro composte dal maestro per la sua opera. Della prima, non utilizzata e pubblicata dopo la morte di Beethoven con il numero d’opera 138, abbiamo già parlato. L’orchestra si compone di 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani e archi. Il tema dell’aria di Florestano, che era stato già introdotto nella prima Ouverture in un episodio centrale lento conducente alla ripresa, costituisce qui il nucleo di sviluppi musicali diversi: di colore cupo e insieme appassionato nell’introduzione; combattivi, agitati nel secondo tema dell’Allegro, nello sviluppo, nel breve epilogo (l’Ouverture manca della ripresa). Altro elemento musicale fondamentale è costituito dal tema iniziale e principale dell’Allegro, basato su una figura sincopata di slancio che, snodandosi in movimento ascendente, sulle note di un accordo cadenzale sempre più teso, trova infine nel fortissimo di tutta l’orchestra la sua più compiuta affermazione e risoluzione. Nella ampia elaborazione che segue può vedersi adombrata la scena madre del dramma, fino agli squilli interni della tromba che annunciano l’arrivo del ministro. Fra l’uno e l’altro squillo riappaiono ancora sovrapposti in piano — come una voce di stupore nell’arresto improvviso della lotta — gli spunti dei due temi dell’ Allegro; poi, ad un ulteriore chiaro (nonostante la brevità) spiegamento melodico dell’aria di Florestano, segue la conclusione con il trionfo del tema principale in impetuosa forma riepilogativa. Gli squilli di tromba, che non figurano nell’Ouverture op. 138 né in quelle del Gaveaux e del Paer, hanno un precedente nell’Ouverture della “Helena” di Méhul (su libretto parimenti di Bouilly, rappresentata la prima volta a Parigi il 1° marzo 1803): nella quale però risuonano in orchestra, pur riferendosi ad un segnale interno introdotto nel corso dell’opera.

L’Ouverture della Léonore del Gaveaux, benché non contenga particolari riferimenti musicali alla vicenda scenica, risponde allo spirito del dramma con il suo passaggio dall’oscura, lenta introduzione all’Allegro in minore, schiarito poi nella trasposizione in maggiore magnificato in ultimo da un’impetuosa ascesa di scale degli archi (che la pagina beethoveniana nello stesso punto ha egualmente introdotto, portandola al massimo effetto). Meno espressiva, per quanto scorrevole ed elegante, l’Ouverture della Leonora del Paer.

Primo Atto

Nel cortile del castello in cui si trova il carcere Marcellina sta stirando della biancheria, mentre aspetta Fidelio, al quale spera di essere al più presto unita in matrimonio. Breve parte recitata di Marcellina: Oggi finalmente mio padre deve fissare il giorno delle nostre nozze! poi

I. Aria: Marcellina: O war ich schon mit dir vereint! (Oh fossi già unita a te!). – Andante con moto. Numerosi abbozzi ci mostrano quanto sia stata laboriosa la gestazione di questa aria; ne esistono anche tre redazioni diverse anteriori, come si è visto, e quella di cui ora ci occupiamo sarà ritoccata  nelle rielaborazioni del 1806 e del 1814. Con la sua alternativa di minore e maggiore, in corrispondenza di due momenti espressivi diversi — il primo esitante ed ansioso, il secondo gioiosamente spiegato — la musica aderisce al senso delle parole. Il contrasto esisteva già, per quanto con meno risalto, nella spagnoleggiante aria del Gaveaux: Fidelio, mon doux amour; manca in quella del Paer: Fedele mio diletto. L’aria del Gaveaux porta in principio l’indicazione: Tempo di Minuetto – Seguidilla. Secondo Schiedermair l’autore avrebbe cercato di avvalorare anche con questo ritmo il carattere spagnolo dell’ambiente in cui l’opera è collocata, per stornare ogni idea di allusioni a fatti reali avvenuti in Francia nel periodo rivoluzionario. Recitazione. Entra Jaquino: Finalmente posso di nuovo parlare con te! Marcellina — a parte — manifesta il suo corruccio temendo ch’egli venga ancora a parlarle del suo amore.

II. Duetto: Jaquino e Marcellina: “Jetz, Schàtzchen, ietzt sind mr allein” (Ora, tesoruccio, ora siamo soli). Consta di due parti simmetriche. Nella prima: l’avvicinarsi fiducioso dell’innamorato Jaquino, la sua richiesta esitante, le risposte poco incoraggianti della ragazza, i colpi battuti alla porta che interrompono il colloquio; nella seconda: il rifiuto della ragazza, l’insistenza implorante e risentita di Jaquino, il congedo, ribadito ancora dai colpi alla porta; poi una coda in cui i due personaggi insistono ciascuno nel suo sentimento. Fra l’una e l’altra parte il breve intermezzo del solo di Marcellina, che pur compatendo Jaquino riafferma il suo amore per Fidelio. Il tema principale ricorda la fine della prima parte dell’Allegro con brio del Settimino. L’episodio dei colpi battuti alla porta ha avuto anche in Beethoven come già nel Gaveaux e nel Paer, per quanto in forme diverse, uno spicco particolare che rientra nel quadro generale a sfondo comico del duetto (in contrasto pertanto con il sentimentalismo dell’aria precedente). Certe forme musicali di vagheggiamento amoroso da opera buffa che si incontrano in Gaveaux (“Je te caresserai, je te tapoterai, je te dorloterai”) e in Paer (Poi che a tempo e luogo farò dai giochetti con te) non hanno l’equivalente nel libretto di Sonnleithner e quindi neppure in Beethoven, al quale invece un altro passo di Paer (Che sospiro per te) può aver dato la prima idea dell’approccio esitante di Jaquino (“Ich habe zum Weib dich gewdhlet”) (Io ti ho scelto per moglie). Recitazione. Prosegue per un po’ il bisticcio fra Marcellina e Jaquino. Entra Rocco, mettendo pace; ma facendo sue le ragioni di Marcellina dice a Jaquino che non si può dare ad una ragazza un marito ch’essa non vuole.

III. Terzetto: Rocco, Marcellina, Jaquino: “Ein Mann ist bald genommen” (Un uomo è presto conquistato). È stato introdotto da Sonnleithner a questo punto nell’adattamento fatto per Beethoven del libretto di Bouilly. Non si trova pertanto in Gaveaux e in Paer. Nella redazione del 1806 fu abbreviato, in quella del 1814 è stato soppresso. Consta di due parti quasi identiche, in ciascuna delle quali al solo di Rocco seguono le risposte di Jaquino e Marcellina intrecciate a duetto ed una coda in cui tutte e tre le voci si uniscono riprendendo e concludendo il tema di Rocco. La parola nein – no – ripetuta alla fine di ogni periodo dai singoli personaggi, uno alla volta o insieme, dà al pezzo una impronta comica sui generis poiché in essa, pur nella concordia delle cadenze, si riassorbono egualmente la bonaria sentenziosità di Rocco, che consiglia di non fare matrimoni alla leggera, la ferma risoluzione di Marcellina di voler sposare Fidelio e non Jaquino, e la malinconica rinunzia di Jaquino alle sue speranze. Recitazione. Entra Fidelio (Leonora) e rende conto a Rocco delle spese di cui era stato incaricato, e di quanto è riuscito a risparmiare. Il vecchio carceriere lo elogia e replicando alle sue proteste di fedeltà disinteressata con il tono di chi vuole alludere ad una ricompensa che secondo lui quegli ha già di mira, cioè al suo preteso desiderio di sposare Marcellina, soggiunge « Credi che non ti sappia leggere nel cuore?». A questo punto ha luogo il

IV. Quartetto a canone: Marcellina, Fidelio, Rocco, Jaquino: “Mir ist so wunderbar” (Quanto è affascinante questo per me). Non si trova nel libretto di Bouilly, e per conseguenza neppure nella Léonore di Gaveaux e nella Leonora di Paer. Le successive entrate dei quattro personaggi vengono a fissarsi come altrettante immagini dei loro sentimenti, accomunati in un senso unico di sospensione e di stupore, così da darci una impressione d’insieme del momento scenico: dove però più che il rapimento amoroso di Marcellina, o la soddisfazione di Rocco, o il disappunto di Jaquino, ci colpisce la passione segreta di Leonora che vede crescere sempre più le difficoltà della sua ardua impresa. Rocco promette a Marcellina e a Fidelio di farli sposare non appena il governatore sarà partito per il suo abituale viaggio a Siviglia. Ma si crede in dovere di aggiungere che per una buona e serena vita matrimoniale occorre avere anche del denaro.

V. Aria: Rocco: “Hat man nicht auch Gold beineben” (Se non si ha anche dell’oro con sé). Fra i vari numeri «leggeri» (come i precedenti e il seguente), non da tutti considerati sempre rispondenti alla «serietà» dell’opera, quest’aria è forse l’unica veramente criticabile — musica a parte — per la sua poca opportunità e anche perché proprio non necessaria all’interesse dell’azione. Essa manca nella Leonora di Paer. L’affinità con la Chanson corrispondente nella Léonore del Gaveaux è chiara. Che Beethoven in principio abbia pensato anche ad altri temi differenti e poi si sia deciso a ricalcare il modello del suo predecessore, nello stesso tono, dandogli tuttavia una impronta più snella e un altro svolgimento. Recitazione. Leonora (Fidelio), assecondata da Marcellina, chiede a Rocco di farle ottenere dal governatore il permesso di accompagnarlo nei servizi interni della prigione «per alleviargli le fatiche»; Rocco glielo promette, pur aggiungendo che le occorrerà molta forza d’animo per sopportare la vista di un prigioniero segreto, condannato dal governatore a morire lentamente di fame. Leonora, comprimendo l’interna angoscia, assicura che non verrà meno al suo compito.

VI. Terzetto: Rocco, Fidelio, Marcellina: “Gut, Sohnchen” (Bene, figliuolo). Introdotto dal Sonnleithner, non ha alcun precedente nei libretti e nella musica delle opere di Gaveaux e di Paer. Il primo atto termina con questo terzetto che, se da una parte può considerarsi come il coronamento delle precedenti scene di piccola vita borghese, dall’altro, con il rilievo dato alla figura appassionata e dolorosa di Leonora, preannuncia lo svolgimento drammatico dei due atti successivi. Sono a distinguersi due parti principali. La prima (Allegro non troppo), ove i tre personaggi «espongono» ciascuno il proprio sentimento (il compiacimento di Rocco per l’animo forte di Leonora, la gioia impaziente di Marcellina, l’angoscia di Leonora che deve continuare più che mai a nascondere le sue ansie), è ampia e articolata; la seconda (Allegro molto) ha il carattere di una stretta, dove, a coronamento di quanto già detto o pensato, e non senza che Leonora si abbandoni ancora a qualche doloroso «a parte», i due giovani si scambiano la promessa nuziale, sotto lo sguardo intenerito di Rocco. Per quanto diversi possano apparire fra loro, nel corso dello sviluppo drammatico, i vari episodi derivano musicalmente, in modo più o meno diretto, da alcuni elementi fondamentali contenuti già tutti in germe, si può dire, nella frase iniziale di Rocco. E cosi pure alla figura introduttiva dei violini si richiama un elemento ritmico d’avvio, ricorrente frequentemente nel corso del pezzo, animatore soprattutto, con il suo reiterato impulso, del movimento dell’Allegro molto.

Secondo Atto

VII. Marcia. Tanto nel Gaveaux che nel Paer la scena incomincia direttamente, senza alcun preambolo strumentale, con le parole recitate di Pizarro. Neppure il libretto originario del Sonnleithner porta l’indicazione di questa marcia, che tuttavia — a quanto oggi sembra sicuro — dovette essere introdotta fin dalla prima redazione. Il sipario si alzava probabilmente alla fine, lasciando vedere sulla scena le guardie già schierate ed immobili; anche un po’ prima, dando modo alla musica di accompagnare per qualche battuta il passo delle guardie ancora in movimento. Berlioz trovava questa pagina di un carattere “triste comme peut l’ètre du reste une marche de soldats rardiens d’une prison”. Certo essa si distacca dal tipo comune di marcia spigliata, allegra, magari un po’ spavalda. D’altra parte va intesa come un accessorio di colore e non adempie ad un compito essenziale drammatico. Recitazione. Entra Pizarro seguito da Rocco, che gli consegna la posta; una lettera lo avvisa dell’imminente arrivo del ministro; egli ordina all’ufficiale che un trombettiere dall’alto della torre dia il segnale non appena ne avvisti di lontano la carrozza sulla strada di Siviglia, e decide di sopprimere subito Florestano, in modo che il ministro non ne trovi più traccia. La scena deriva direttamente come testo, tanto in Paer che in Beethoven, da Gaveaux; ma in questo e in Beethoven è puramente recitata, mentre in Paer (compresa la lettura della lettera) è trattata a recitativo secco. Dopo di essa però in Paer e in Beethoven troviamo due pagine nuove rispetto al modello francese: nel primo il terzetto: “Quai pensieri, quai dubbi ho dintorno” (Pizarro, Rocco, Leonora in veste di Fedele), nel secondo la seguente:

VIII. Aria di Pizarro: “Ha! Welch’ein Augenblick!” (Ah! Qual momento!), seguita dal coro delle guardie. Allegro agitato. È facile vedere, passando da un’opera all’altra, come la musica, che in origine aveva trascurato completamente il personaggio di Pizarro, se ne sia poi man mano impadronita dandogli un rilievo sempre maggiore. Nella Léonore del Gaveaux infatti Pizarro recita soltanto; nella Leonora del Paer, oltre agli episodi svolti in recitativo secco, esso partecipa al terzetto di cui sopra (n. V), il quintetto del Finale: “Signor mio” (n. IX), al quartetto: “Fermate, io lo difendo” (atto II, n. XVI); nel Fidelio gli è riservata, oltre l’aria di cui qui ci occupiamo, una parte molto importante nel successivo duetto “Jetz, Alter”, nel finale di questo stesso atto e nel quartetto “Er sterbe!” del terzo atto. Potrebbe darsi che nel tratteggiare musicalmente la truce figura, Beethoven abbia avuto presente quella di Durlinslty nella “Lodoiska” di Cherubini (composta nel 1791); ma le analogie sono molto deboli, ridotte alla generica elementarità di qualche tipo di fraseggio e di qualche figurazione strumentale; il linguaggio beethoveniano è più ricco, vario, nuovo e drammaticamente efficace. L’esaltazione progressiva della passione di vendetta prorompe con il massimo della violenza nel maggiore, alle parole: “Triumph! der Sieg ist mein!” (Trionfo! la vittoria è mia!) (a cui Weber forse pensò nello scrivere il brindisi di Gaspare nel “Freischutz”). A questo punto si aggiunge il coro delle guardie, che temono ed ammirano il loro terribile signore, a cui non potrebbero neppure pensare di ribellarsi: “Er spricht von Tod und Wunde” (Egli parla di morte e ferite); in principio sommesso, quasi pavido, poi crescente man mano fino al forte e intrecciato alle frasi del solo fino alla conclusione.

IX. Duetto : Pizarro, Rocco: “Jetz, Alter” (Su, vecchio). Allegro con brio. Pizarro vorrebbe incaricare Rocco dell’uccisione di Florestano, e gliene fa la proposta offrendogli una borsa di denaro. Rocco trema alla sola idea di uccidere, ma (e più che altro forse per paura del padrone, al quale del resto fa buon giuoco addurre, come motivo di intimidazione, e insieme di giustificazione superiore, la «ragione di stato») si adatta al compromesso di scavare la fossa nell’interno della segreta dove Florestano giace prigioniero, lasciando poi che l’altro venga a vibrare il colpo mortale; infine tacita la propria coscienza pensando che la vittima era già, in ogni modo, avviata da tempo a morir di fame, e che il pugnale la «libererà» più presto dalle sofferenze. La musica rende l’incalzare delle parole di Pizarro che si fanno sempre più aggressive di fronte alla titubanza dell’altro e al suo rifiuto di compiere l’assassinio; le espressioni “morden” (uccidere), “ivenn dir’s an Muth gebricht” (se a te manca il coraggio), “Dann werd’ich schnell vermummt in der Kerker schieichen; ein Stoss… and er verstummt!” (Poi io stesso, ammantellato, mi introdurrò di soppiatto rapidamente nella prigione; un colpo … e non parla più) sono di una drammatica incisività, e come un tristo trionfo nell’accordo dei due appare la conclusione. Recitazione. Pizarro e Rocco escono; dall’altra parte entrano Fidelio-Leonora e Marcellina, che li seguono con lo sguardo. Marcellina pensa che il padre approfitti dell’occasione per chiedere a Pizarro il consenso al suo matrimonio e s’abbandona a dolci pensieri, che Leonora finge d’assecondare, sulla felicità della loro prossima unione.

X. Duetto: Marcellina e Fidelio-Leonora: “Uns in der Ehe froh zu leben” (Per vivere felici nel matrimonio). Questo duetto, che non si trova in Paër, torna a seguire fedelmente il libretto di Bouilly per la Léonore di Gaveaux. Come qualche altra pagina precedente non è legato all’azione drammatica da un vincolo di assoluta necessità (nella redazione del 1806 è stato abbreviato, ed è scomparso in quella del 1814). Ma si tratta sempre di un gentile pezzo di musica, con qualche aspetto mozartiano, fatto più attraente dall’impiego di due parti strumentali obbligate: un violino e un violoncello, accompagnati rispettivamente alle voci di Marcellina e di Leonora. Il corrispondente duetto del Gaveaux “Pour être heureux en mariage” non si libera, pur nella sua grazia, di una certa leziosaggine. Nel tradurne e rifonderne il testo per Beethoven Sonnleithner ha eliminato qualche frase artificiosa nella sua troppo voluta ingenuità. Che poi lo spunto (le prime quattro note) sia, come dice l’Englànder una amichevolmente deliberata allusione al tema strumentale che nella Leonora di Paer (atto I, n. VI) accompagna il recitativo della protagonista alle parole “Sposo adorato” (introdotte anche nell’Ouverture e dal suddetto studioso chiamato «tema della fedeltà di Leonora») ci sembra molte discutibile. D’altra parte l’uso fattone da Beethoven soltanto in questo episodio accidentale impedisce di dargli in alcun modo il carattere d’una impostazione tematica. Recitazione. Marcellina si allontana per andare a dare, come d’uso, l’«aria» ai prigionieri. Leonora, rimasta sola, si sprofonda nei suoi pensieri.

XI. Recitativo: Fidelio-Leonora: “Ach brich noch nicht, du mattes Herz!” (Ah, non spezzarti ancora, debole cuore!) e aria: “Komm, Hoffnung” (Vieni, speranza). – Allegro. Di questo recitativo non troviamo traccia nel libretto e nella musica della Leonore di Gaveaux; nella Leonora di Paer esso corrisponde alla prima parte del n. VI: “Esecrabìl Pizarro!” Nella redazione beethoveniana del 1814 sarà sostituito dall’altro: “Abscheulicher! wo eilst du?” (Miserabile! dove t’affretti?). Qui non è che un breve affannoso appello dell’eroina a tutte le sue forze morali, per non lasciarsi sopraffare dalla disperazione. Nelle ultime due battute (Andante) l’espressione angosciosa si mitiga con la distensione del fraseggio melodico; ma l’invocazione alla speranza appare e si sviluppa solo nell’Adagio che costituisce la prima parte dell’Aria, corrispondente come libretto alla romance di Gaveaux: “Qu’il m’a fallu depuis deux ans” (due couplets sulla stessa musica), e alla cavatina di Paer: “I tuoi gemiti dolenti”. Nel tema che le voci dolci e velate dei tre corni (ai quali si aggiunge poi un fagotto) si rimandano completandosi a vicenda nel disegno armonico e melodico, ogni tumulto interiore si compone e le parole: “Komm, Hoffnung” (Vieni, speranza) si innalzano alla fine nel canto con una melodia cara a Beethoven, di cui troveremo ancora lo spunto nel Liederkreis (Corona di canzoni) op. 98 e nel quartetto vocale che conclude l’Amen del Credo della “Missa solemnis”. L’Allegro con brio finale, collegato all’Adagio da una piccola cadenza vocale, consta di due parti: una prima più breve: “O du fur den ich alles trug” (O tu, per cui ho tutto sopportato). — Allegro con brio — esprime in accenti rotti e angosciati il desiderio di poter giungere al luogo dove la malvagità degli uomini ha gettato in catene lo sposo; la seconda: “Ich folg dem innen Triebe” (Io seguo l’impulso del mio cuore) svolta più ampiamente, afferma ancora la volontà di lottare con tutte le forze per salvarlo. Il tema, accennato già in principio della parte precedente, si spiega negli strumenti come un appello di battaglia, e dà l’impulso ad un canto tutto slanci e riprese di splendido impeto. Due cadenze di virtuosismo non piacquero troppo per la loro difficoltà alla interprete della parte di Leonora (la Milder), tanto che Beethoven fu indotto a toglierle fin dalla prima revisione dell’opera del 1806: e del resto esse poco avevano a che fare con la serrata drammaticità del pezzo. La prima parte dell’Allegro venne poi completamente soppressa nella redazione del 1814, dove (abolita anche la breve cadenza vocalizzata finale) le ultime sillabe del canto dell’Adagio cadono senz’altro sulla nota iniziale della seconda. La ragione può trovarsi nell’intento di conseguire una maggiore unità e concisione dell’aria nel suo complesso; ma non ci convince troppo; e ci sentiamo piuttosto portati a lamentarne, insieme con Rolland, la soppressione. Secondo Nottebohm, di quest’aria sarebbe esistita un’altra redazione più antica e oggi perduta, totalmente diversa almeno nelle sue due prime parti (Recitativo-Adagio), eseguita realmente nelle rappresentazioni del 1805. La supposizione è basata su alcuni abbozzi, citati dal suddetto studioso nella Zweite Beethoveniana. Ma niente prova che si sia trattato di una vera e propria redazione compiuta, piuttosto che di un tentativo abbandonato prima della stesura definitiva dell’opera. La supposizione in ogni modo non ha trovato conferma nell’edizione di Prieger, posteriore di almeno venti anni agli studi del Nottebohm.

XII. Finale. La scena cambia; i prigionieri, a cui è stato concesso di prendere un po’ d’aria, escono lentamente sulla spianata. a) Coro dei prigionieri: “O welche Lust” (Oh qual piacere). Questo coro (che, unitamente all’intera scena, manca nella Leonora di Paer) è modellato esternamente sulle schema del corrispondente della Léonore di Gaveaux “Que ce beau del, cette verdure”: sovrapposizione graduali di armonie e di sonorità strumentali e vocali, figure di movimento strumentali a cui s’appoggia l’ascesa, in figurazioni più larghe, delle voci, episodi collaterali di voci singole, seguite dal coro in brevi e più mossi intrecci ed incisi ritmici, ripresa della parte iniziale e conclusione in pianissimo. Ma Beethoven ha edificato su questa base tutto un mondo suo proprio. Le armonie si formano e diffondono al principio negli strumenti e poi nelle voci per successive cadenze e modulazioni, cioè con un movimento di sostanziali mutazioni di colore musicale, che si eleva e si «libera» verso la chiarificazione man mano che i prigionieri escono dal carcere all’aria aperta; impressione fisica, diremo così, di una dolcezza un po’ cruda, come quella del dantesco “dolce come che fere gli occhi”. Nel Gaveaux la sovrapposizione graduale delle parti è soltanto strumentale (le voci entrano tutte insieme nel punto culminante) e regna incontrastata fin dal principio l’unica armonia dell’accordo del tono di re maggiore. Significativo è il contrasto creato fra i due momenti consecutivi l’uno all’altro) dell’aspirazione alla luce: “Nur hier ist Leben” (Soltanto qui è vita) e della negazione tenebrosa: “Der Kerker ist Gruff” (La prigione è tomba). Grande risalto hanno ricevuto anche gli episodi colaterali, efficacemente coloriti dai cambiamenti di tono, dei brevi soli di due prigionieri che suscitano, ciascuno a suo modo, profondi echi e risonanze; il primo (tenore) cercando di rincuorare i compagni, esortandoli ad aver fede nel Signore e ravvivando in essi la speranza di riacquistare un giorno la libertà; il secondo (basso) richiamandoli alla tristezza della realtà presente e ammonendoli di parlare più piano perché occhi ed orecchi stanno sempre spiando. Poi la parte iniziale è ripresa con il suo raccolto fervore, e seguita da una conclusione in cui i vari gruppi tornano a ripetersi sommessamente le esortazioni al silenzio e alla prudenza. Questa pagina si è venuta formando gradualmente, come appare dagli abbozzi descritti da Nottebohm. Alcuni di essi hanno con la redazione definitiva un rapporto molto lontano. Il disegno strumentale dei legni, particolarmente del fagotto, s’accompagna alla graduale sovrapposizione delle voci in ascesa, non appare in principio: figura invece, con altra fisionomia e tonalità, in un abbozzo che era destinato originariamente al finale del Quarto concerto per pianoforte e orchestra. b) Recitativo e duetto: Rocco e Leonora: “Entfer euch” (Allontanatevi). Entrano Rocco e Fidelio-Leonora. Allontanati i prigionieri, Rocco informa il suo sedicente aiutante che ha ottenuto per lui dal governatore il consenso del matrimonio con Marcellina e il permesso di condurlo con sé nei servizi segreti della prigione. Qui termina il recitativo. Lo scattante “Noch beute?” (Oggi stesso?) di Leonora, armoniosamente e ritmicamente incisivo, segna l’inizio del duetto (Allegro molto – Poco andante con moto). Rocco spiega che una volta discesi nel sotterraneo dove giace il prigioniero condannato a morire dovranno scavare ivi stesso una fossa tra le macerie d’una vecchia cisterna. Poi verrà Pizarro, per uccidere di sua mano il prigioniero, e il cadavere sarà subito sepolto. Alle febbrili domande di Leonora impaziente di sapere, di vedere, di agire, l’altro risponde con una pacatezza cupa. Immagini musicali lugubri si alternano ripetutamente a voci di angoscia soffocata. All’indifferenza o quasi del carceriere — che pure dichiara di non compire volentieri l’impresa — fa contrasto la passione vibrante della donna che riesce appena a dominarsi. Il duetto è interrotto da una precipitosa c) Entrata di Marcellina: “Ach, Vater, eilt, ihr verweilt” (Ah, padre, su presto! voi indugiate) che preannuncia l’arrivo dell’infuriato Pizarro. Episodio di movimento in cui le voci dei tre personaggi si intrecciano agitate. d) Entrata di Pizarro: “Noch irnmr zaudert ihr?” (Ancora indugiate qui?). Annunciato con una certa enfatica pompa, il governatore entra e si volge irosamente a Rocco e a Fidelio-Leonora rimproverandoli di stare ancora lì inoperosi e ingiungendo loro di andarsene insieme con Marcellina. I tre tentano debolmente di scusarsi; il breve contrasto si compone nell’umile “Ja, wir gehorchen” (Sì, abbiamo sentito) che essi mormorano insieme, allontanandosi. e) Pizarro e coro delle guardie: “Auf euch nur will ich bauen… rechfertigt mein Vertrauen, sonst fürchtet meine Wuth; Jetz eilet auf die Zinnen” (Su voi soltanto voglio contare … rispondete alla mia fiducia o temete la mia ira; ora affrettatevi a riprendere i vostri posti sui merli). Alle parole di Pizarro risponde e si unisce il coro delle guardie, che assicurano la loro devozione: “Fest konnt ihr auf uns bauen” (Voi potete fare sicuro assegnamento su di noi); e, terminata la scena, la musica prosegue ancora in un epilogo strumentale a piena orchestra di ben cinquantanove battute. L’insieme è di un carattere effettistico e magniloquente che non lega troppo con lo spirito del dramma. Di tutto questo finale, a partire dall’entrata di Pizarro, abbreviata già nella redazione del 1806, sono rimaste nella redazione del 1814 soltanto le battute iniziali; il resto è stato radicalmente cambiato nelle parole, nella musica e nella scena. Un abbozzo inutilizzato di introduzione strumentale alle parole di Pizarro: “Auf euch …” ecc… è citato da Nottebohm. Nella Léonore di Gaveaux l’atto termina con il coro dei prigionieri senz’altre aggiunte. Nell’opera di Paér, ove manca del tutto, come si è detto, questo episodio, ha luogo invece un concertato a cinque: Pizarro, dopo aver imposto a tutti di andarsene e di obbedire ai suoi ordini (unico punto di contatto con la scena di Beethoven), si sfoga in parole d’odio e di vendetta contro Florestano; Giacchino e Marcellina vengono di nuovo a lite; Leonora-Fidelio (Fedele) si mostra impaziente di scendere nel sotterraneo, mentre Rocco non si rende conto di quello che gli altri stanno brontolando.

Terzo Atto.

XIII. Introduzione, recitativo e aria di Florestano. L’atto si svolge interamente nel fondo della prigione in cui giace incatenato Florestano. L’introduzione è di un colore spettrale, ma dall’impressione di freddo, di buio, di macabro, in questa atmosfera di sepolti vivi, si esprime la voce del dolore umano; i suoni di lamento, di anelito, come fantasmi generati dalla tristezza stessa delle cose, si stringono intorno alla vittima innocente, interpretandone più delle sue stesse parole, lo sconsolato stato d’animo. Il recitativo: “Gott, welche Dunkel hier!” (Dio, quale oscurità qui) è sostenuto dalle stesse figure strumentali dell’introduzione. Una luminosa modulazione in si maggiore, alle parole “Doch gerecht ist Gottes Wille, ich murre, nicht, das Mass der Leiden steht bei dir!” (Ma giusta è la volontà del Signore, io non mormoro, a te appartiene la misura della sofferenza), viene a rischiarare per un momento l’atmosfera, che torna però ad offuscarsi subito dopo, con l’entrata dell’aria (Adagio): “In des Lebens Fruhlingstagen” (Nell’età primaverile della vita). Il motivo è quello introdotto già, più o meno ampiamente, nelle Ouvertures: d’una tristezza rassegnata, ma in questa prima redazione non troppo sviluppato. Segue un Andante un poco agitato nello stesso fosco tono minore dell’introduzione, con le altre due strofe: “Ach es waren schöne Tage” (Ah, erano bei giorni quelli) e “Mildre, Liebe, deine Klage” (Mitiga, amore, i tuoi lamenti), ove la passione del prigioniero, nel ricordare la sposa e i giorni felici, si esprime con maggiore abbandono. Sembra che Beethoven abbia in principio pensato di dare alla prima di queste due ultime strofe la veste musicale diversa di un Moderato in maggiore con flauto obbligato. Ne riporta letteralmente l’abbozzo Nottebohm. Nella redazione del 1806 tanto l’introduzione orchestrale che l’aria sono stati abbreviati; in quella del 1814 il Recitativo e l’Adagio hanno subito notevoli modificazioni; l’Andante un poco agitato è scomparso, sostituito da un Poco allegro, con parole e musica totalmente diverse. Nella corrispondente aria di Paer alle due parti principali: Andante sostenuto (Dolce oggetto), preceduto di un’ampia introduzione (in cui è da notare soprattutto l’elegante dialogo fra una viola e un violino obbligati, che prosegue poi in varie riprese durante lo svolgimento del canto) e Allegro (“Deh, quel ciglio rasserena”) segue un altro recitativo accompagnato dall’orchestra: “O giustizia mi reggi e mi difendi”. Scene musicalmente non disprezzabili, ma che dal patetico inizio passano troppo facilmente allo stile usuale, con frequenti concessioni ai virtuosismo del canto.

XIV. Melodramma e duetto: Fidelio-Leonora -Rocco. a) Melodramma: “Wie kalt ist es in diesem unterdischn Gewölbe!” (Come fa freddo in questa spelonca!). Poco sostenuto. Recitazione-. Fidelio: “Wie kalt ist es in diesem unterdischer. Gewölbe!” (Come fa freddo in questa spelonca!) — Rocco: “Das ist natürlich! Es ist so tief!” (E naturale! È tanto profondo!). Recitazione. Fidelio: “Ich glaubte schon wir wurden den Eingang gar nicht mehr finden” (Credevo che non avremmo più trovato l’entrata). Prieger dichiara di aver introdotto questo melodramma nella sua edizione riprendendolo testualmente, in mancanza di qualunque documentazione originale, dalla partitura del Fidelio del 1814. «Nella seconda redazione, dove tutto fu considerato sotto il punto di vista dell’abbreviazione, esso non venne incluso; ma che non sia mancato nella prima lo dimostrano gli abbozzi esistenti al riguardo». Ci uniformiamo a questa asserzione, basata sulla testimonianza di Nottebohm che fra i lavori preparatori dell’opera del 1805 cita una pagina in cui sarebbe contenuto fra l’altro l’abbozzo dell’intero melodramma, per quanto fra le parti da lui riportate non figuri quella centrale. Esempi precedenti dell’introduzione di melodrammi recitazione parlata, commentata dalla musica) si trovano tra l’altro nel “Pigmalione” di Rousseau (1762) e nell’”Arianna a Nasso” di Benda (1775). Ma forse a noi interessa più ricordare che anche Neefe, il maestro di Beethoven, ne aveva fatto uso; e così pure, possiamo aggiungere, Cherubini in qualcuno dei suoi lavori teatrali, scritti, come appunto il Fidelio di Beethoven, nella forma mista di prosa e di musica dell’opéra comique. Nel caso presente sembra a noi che la recitazione pura e semplice sarebbe stata troppo crudamente realistica, il recitativo secco troppo freddo, quello accompagnato troppo musicale per una scena tanto rapida e fosca. Meglio rispondeva allo scopo il commento strumentale a brevi saltuari incisi, che dopo alcune allusioni di carattere esteriore (i passi furtivi, il tremore di Leonora) si fanno più aderenti ai moti dell’animo della donna; poi tornano ad accentuarne più esternamente l’agitazione alle parole di Rocco: “Mir scheint, du zitterts? Furchtest du?” (Tu tremi, mi sembra? Hai paura?) per concludere in quattro battute di Andantino che introducono, con piena logica musicale ed espressiva, la scena seguente. b) Duetto: Fidelio-Leonora e Rocco: “Nur hurtig fort” (Orsù, presto). Andante con moto. Sul cupo sfondo di colore stabilito dall’orchestra si disegna il profilo dei due personaggi. Il carceriere, dopo aver esortato il tremante compagno a lavorare per riscaldarsi, dà di piglio alla zappa, e incomincia a scavare la fossa ove qualcuno non tarderà ad entrare, cadenzando lúgubremente le sue parole (se l’insieme della scena ha suscitato nel Bekker il ricordo di quella dei Lemuri nel Faust, la figura e gli atteggiamenti del singolo potrebbero far pensare fuggitivamente ai becchini dell’Amleto); la donna-amante sotto le spoglie del fedele servitore cerca di assecondarlo, ma la tristezza del canto ne dà a vedere la pena; essa guarda il prigioniero, che le volta le spalle, ed è decisa a salvarlo chiunque sia. La musica si anima per un momento di calor lirico nel passaggio in maggiore, poi torna a gravare la squallida atmosfera di morte. Nella Léonore di Gaveaux troviamo, invece del melodramma, la recitazione pura e semplice; nella Leonora di Paèr il recitativo secco, ma sottolineato più espressivamente da alcuni disegni del basso. Recitazione. Florestano, che era svenuto, riprende i sentimenti: parla con Rocco e viene da lui a sapere che governatore della prigione è il suo nemico Pizarro. Poi domanda da bere. Rocco gli fa porgere da Leonora la sua fiasca di vino. Leonora, che lo ha riconosciuto, trattiene a stento la commozione.

XV. Terzetto: Florestano, Leonora, Rocco: “Euch verde Lohn” (Vi sia data ricompensa). Andante con moto. La musica ha per base un tema melodico legato da qualche analogia con quelli di due altre pagine beethoveniane strumentali, di fisionomia affine e nello stesso tono di la maggiore, i finali delle Sonate per pianoforte e violino op. 30 n. 1 e per pianoforte e violoncello op. 69. Le voci si susseguono e intrecciano; ed in un’unica espressione musicale di dolcezza convergono la riconoscenza e la speranza di Florestano, la nuova benignità di Rocco, la pienezza degli affetti di Leonora. Un episodio centrale, in altra tonalità, svolge il breve contrasto fra Leonora desiderosa di dare al prigioniero anche un pezzo di pane, e Rocco, che in principio non vuole permetterlo. Ma il carceriere finisce per cedere e la melodia viene ripresa e conclusa con la stessa dolcezza iniziale. Recitazione. Rocco dà con un fischio il segnale che «tutto è pronto». Pizarro, ammantellato e con il volto celato da una maschera, scende nella prigione, parla brevemente con Rocco e fa allontanare Leonora, che però si apposta lì vicino in modo da poter vedere senza essere veduta.

XVI. Quartetto: Leonora, Florestano, Pizarro, Rocco: “Er sterbe!” (Ch’egli muoia!). È questa la scena capitale dell’opera, dove gli eventi sembrano precipitare fino ad una irreparabile catastrofe, che si risolve, di punto in bianco, nella liberazione. La musica poggia su un agitato tema strumentale di movimento, (Allegro) e, per quanto riguarda la parte di Pizarro, assume una violenza d’accenti che si richiama a momenti dell’aria: “Ha! welche Augenblick!” e del duetto: “Jet Alter!” dell’atto precedente. Le parole ch’egli dice togliendosi la maschera: “Pizarro, den du stürmen wollest… als Räch ter steht nun hier!” (Pizarro, che tu volevi abbattere … sta ora qui come vendicatore !) sono coronate da una specie di fanfara, di cui la fredda risposta di Florestano: “Ein Mörder steht vor mir” (È un assassino quello che mi sta davanti) rintuzza la tracotanza. Ma per un solo momento, ché riprendendo subito l’invettiva, di cui una progressione del tema strumentale agitato accompagna il furore crescente, l’altro alza sulla vittima il braccio armato di pugnale. Leonora si slancia fulmineamente in avanti, facendo scudo con il proprio corpo a quello di Florestano; il suo grido: “Zurück!” (Indietro!) ferma il braccio dell’assassino. La frase affannosa e lancinante: “Durchbohren musst du erst diese Brust!” (Trafiggere devi prima questo petto!) si innalza ed insiste al di sopra delle voci attonite degli altri; la successiva: “Todt erst sein Weib!” (Uccidi prima sua moglie!) disorienta per un momento anche Pizarro. Il contrasto riprende più accanito sulla base degli stessi elementi musicali, che si oppongono e si intersecano, finché la donna non punta una pistola contro il governatore: “Noch ein JLaut und du bist todt!” (Ancora una parola e sei morto!). Questo momento segna il culmine della tensione drammatica e ne determina nel tempo stesso la risoluzione. Poiché all’ultima sillaba delle parole di Leonora s’innesta con repentino trapasso tonale lo squillo lontano di una tromba: il segnale che è stata avvistata la carrozza del ministro. Nella prima generale impressione di stupore si affaccia fulmineamente, per quanto ancora confusamente, l’idea da una parte della salvezza, dall’altra del repentino fallimento dell’impresa delittuosa; ciò che le voci esprimono insieme, per quanto con diverso accento, mentre un senso riposante di liberazione si diffonde dalla profonda semplicità della frase dei due flauti al disopra della compagine orchestrale. La tromba squilla una seconda volta, più forte: ciò che in Leonora e Florestano afforza la fiducia nella salvezza e in Rocco accresce lo spavento, mentre Pizarro impreca furiosamente: sentimenti tutti che «esplodono» in una stretta affannosa fino a che Pizarro non si precipita fuori, seguito da Rocco, e Leonora, a cui quest’ultimo è riuscito a strappare di mano la pistola, non cade in terra svenuta accanto a Florestano. Nella Léonore del Gaveaux la scena si svolge interamente in forma recitata (neanche lo squillo di tromba, indicato nel libretto, è scritto in partitura); nell’opera del Paér essa è trattata musicalmente in forma di recitativo secco, fino al punto in cui interviene Leonora con le parole: “Fermate, io lo difendo!” Qui entra anche l’orchestra; e con le parole “Ei non morrà, lo giuro”, ha inizio il quartetto concertato. Si può notare l’affinità della frase di Leonora: “Ora si versi il sangue” con il tema strumentale da noi detto «di movimento» dominante nell’opera beethoveniana. Il segnale di tromba è ripetuto identicamente una seconda volta, con l’intermezzo di un breve passo del flauto che accompagna il canto; ma si tratta di analogie di condotta puramente esterna.

XVII. Recitativo e duetto: Leonora e Florestano: “Ich kann nicht nich fassen” (Non posso ancora rendermi conto). a) Recitativo. Leonora, rimasta nel buio del carcere, disarmata, spossata dall’emozione, è caduta esanime a terra. A pochi passi da lei Florestano, in catene, allo stremo anch’egli delle forze, non si rende ben conto degli avvenimenti e crede, vaneggiando, che la donna l’abbia abbandonato. L’efficienza drammatica della musica è tutta nelle figure strumentali che precedono le parole del recitativo e si intramezzano ad esse: una prima, sussultante, si riferisce al turbamento esterno dell’uomo: Allegro ma non troppo, una seconda (il solo dell’oboe), che segue immediatamente, rievoca l’immagine salvatrice della donna amata, presente nel suo pensiero anche se egli in quel momento ignora ch’essa giace inanimata a pochi passi da lui, una terza, pure dell’oboe sembra chiamare già Leonora prima che Florestano distintamente la invochi; una quarta, che potrebbe dirsi «vacillante», dei clarinetti e fagotti si accompagna più tenacemente ai primi movimenti della donna che va riprendendo i sensi e alle parole vaneggianti: “Gebt! Ach gebt ihn miri” (Datemi! Ah datemelo!). Infine un’altra figura, egualmente dell’oboe, alternata al ritorno del tema sussultante associato al turbamento di Florestano: “Was hor ich?” (Che sento?). Il precipitare di un ultimo passo strumentale conduce al giubilante “Ich bin bei dir!” (Io sono accanto a te!) di Leonora, finalmente riunita a Florestano. Questo episodio di commovente umanità, che sbocciava con una naturalezza tanto felice nel duetto successivo, è stato inopportunamente abbreviato nella redazione del 1806 ed è scomparso del tutto in quella del 1814. b) Duetto: Leonora e Florestano: “O namenlose Freude!” (O gioia senza nome!). Il carattere di questa pagina, in cui le due voci entrano impetuosamente insieme al culmine di una ascesa in crescendo degli archi sulla sovrapposizione delle note dell’accordo, si adegua al sentimento di gioia quasi violenta degli sposi che, disgiunti da tanto tempo in modo cosi tragico e ridotti a considerarsi ormai perduti l’uno per l’altro, si ritrovano ad un tratto miracolosamente sani e salvi insieme. Il ritorno periodico del tema iniziale e principale sembra voler riesprimere ogni volta, con lo stesso entusiasmo, il primo impulso nella più elementare manifestazione del grido giubilante; a questo convergono sempre come ad una mèta naturale i diversi episodi, in cui le due voci si susseguono e anche si intrecciano, mentre improvvisi brevi rallentamenti sembrano accennare talora ad una maggiore effusione di tenerezza, alla quale nel particolare momento scenico e psicologico non è consentito troppo abbandono. La frase iniziale e principale — o ritornello, se vogliamo chiamarla così, riferendoci alla forma di rondò — apparteneva originariamente, come si è detto a suo tempo, ad un terzetto dell’opera II fuoco di Vesta, che Beethoven aveva incominciato a scrivere circa un anno prima su libretto dello Schikaneder. Lo svolgimento ne differisce sensibilmente. Sul recitativo accompagnato che precede il duetto ha potuto forse esercitare qualche lieve influenza l’episodio corrispondente della Léonore di Gaveaux, in fa minore, per il carattere agitato ed analogamente «sussultante» del principio e per i temi e richiami strumentali che anticipano quelli vocali. Nella Leonora di Paer domina invece quasi esclusivamente il recitativo secco, ma con un curioso intermezzo, del quale non si trova traccia nel Gaveaux e tanto meno in Beethoven: mentre Florestano e Leonora si scambiano le prime tenere parole, entra Marcellina, che è discesa nella prigione in cerca di Fedele (Leonora) non avendolo veduto risalire insieme con Pizarro e con Rocco. Il presunto fidanzato la scongiura di informare subito il ministro dell’esistenza dell’innocente prigioniero che giace ancora in catene aspettando la liberazione; ma quella esige prima da lui un’altra assicurazione del suo amore e in un duetto quanto mai inopportuno costringe la povera Leonora a rinnovarle calde promesse. Recitazione. Leonora informa Florestano del modo come è riuscita a giungere fino a lui. Le sue parole sono interrotte da un ritmo serrato, martellato dell’orchestra, seguito da grida lontane che chiedono vendetta.

XVIII. Finale: Prigionieri, Popolo, Leonora, Florestano, Marcellina, Jaquino, Pizarro, Rocco, il ministro Don Fernando: “Zur Rache!” (Alla vendetta!). Il popolo e i prigionieri, che il ministro Don Fernando ha liberato, si accingono, guidati da Rocco, a scendere nel sotterraneo ove giace ancora in catene il loro più infelice compagno. Leonora e Florestano, ignari del motivo del tumulto e nel timore di qualche altro pericolo, si stringono l’una all’altro, decisi, piuttosto che separarsi, ad affrontare la morte insieme. La musica di cui si rivestono le loro parole è di una fisionomia tipicamente beethoveniana, in un appassionato e tempestoso do minore. Ma quando Don Fernando, sceso nella prigione insieme con il popolo tumultuante, vi trova il suo vecchio, innocente amico Florestano già creduto morto, ogni cosa cambia. In un tranquillante recitativo non privo di maestà, il ministro spiega di essere venuto a ristabilire la giustizia e a rendere omaggio alla «più nobile delle donne»; poi prima di pensare alla punizione di Pizarro, reclamata a gran voce dalla turba e da Rocco (che cerca di giustificarsi accusando ora anch’egli il tirannello e gettandogli ai piedi la borsa di denaro da lui già ricevuta), fa togliere le catene al prigioniero, dandone l’incarico proprio a Leonora, come la più degna. La musica si spiana: Florestano, liberato, cade nelle braccia di Leonora, e il quintetto (Leonora, Marcellina, Florestano, Don Fernando, Rocco): “O Gott, O welch’Augenblick!” (O Dio, qual momento!), a cui poi si unisce il coro, eleva un tenero inno di gioia al Signore: “O Gott, O welch’ein Augenblick! O unaussprechlich süsses Glück! Gerecht, O Gott, ist dein Gericht, der prüfest, du verlässt ms nicht!” O Dio, qual momento!Oh inesprimibile, dolce felicità! Giusto, o Dio, è il tuo giudizio, Tu ci metti alla prova, non ci abbandoni! La melodia è quella già introdotta da Beethoven, con lo stesso carattere, nell’aria: “Da stiegen die Menschen an’s Licht”, della Cantata per la morte di Giuseppe II. Segue l’episodio della punizione di Pizarro. Le parole con le quali il ministro lo condanna a subire ora la stessa pena sopportata già da Florestano, scandite in una declamazione di forte rilievo, suscitano due reazioni diverse: quella del coro, che protesta impetuosamente per la punizione «troppo lieve», e quella degli sposi liberati che invocano pietà per chi a sopportare la pena non avrà neppure il sostegno d’una buona coscienza. Il ministro risponde appellandosi all’autorità del re (e il compositore non si è potuto esimere dall’appoggiarne qui il recitativo con un tema musicale maestoso): deciderà il sovrano, a cui egli porterà, anche a nome del popolo esultante, la notizia della liberazione degli innocenti oppressi. L’acclamazione del coro che fa eco alle sue parole segna l’inizio della celebrazione finale, che magnifica nell’eroismo della donna il principio della virtù vittoriosa, della giustizia, della fede nel bene. La forma musicale in cui il tripudiante sentimento si esprime ha un carattere «popolare», nel senso elevato della parola. Si può pensare a certi punti del finale, di là da venire, della Nona Sinfonìa, due versi del quale, tanto significativi dell’idealità beethoveniana, sono qui pure introdotti (il primo testualmente, il secondo parzialmente modificato): “Wer ein holdes Weib errungen Stimm’in unsern Jubel ein!” (Chi ha ottenuto una nobile donna si unisca al nostro giubilo). Nottebohm cita alcuni abbozzi inutilizzati. Il disegno di crome del primo al disopra delle parole: “Wer ein holdes…” figurava già, in tonalità diversa, con l’indicazione “Ouverture … Violoncelli …” in una pagina precedente dello stesso quaderno. Il tema in note staccate del terzo, con le stesse parole, è poi molto simile ad un altro che, con le parole iniziali del medesimo inno schilleriano: “Freude schöner Götterfunken”, apparirà in un quaderno del 1812, parimenti descritto dal Nottebohm, fra abbozzi per l’Ouverture per l’onomastico op. 115 e rimarrà poi inutilizzato.
Nelle redazioni del 1806 e del 1814 tutto questo finale ha subito numerosi rimaneggiamenti con abolizione di alcune parti, modificazione di altre e introduzione di parti nuove. Nella Léonore del Gaveaux sono stati musicati soltanto il primo coro invocante vendetta, a cui rispondono appassionatamente gli sposi, pronti ad affrontare insieme la morte, e l’ultimo, preceduto da un solo del ministro, celebrativo dell’amore e dell’eroismo di Leonora. Tutto il resto è recitato, è vi trova anche posto il piccolo episodio — non trattato da Beethoven — della delusione di Marcellina, attutita dalla rinnovata richiesta matrimoniale di Jaquino e dalla promessa di una dote da parte di Leonora. Nella Leonora del Paer, ove il testo è un po’ più diffuso per quanto riguarda gli episodi riferentisi ai personaggi di Marcellina, di Jaquino e di Pizarro, tutto il finale è musicato, senza neppure un recitativo secco. Vi manca però il coro; il tumulto che s’avvicina è descritto soltanto strumentalmente, con molta sobrietà; la massa che fa irruzione sulla scena non è che un insieme di comparse mute. Nessun clamore di folla commenta la condanna di Pizarro e l’implorazione della grazia invocata per lui da Leonora e Florestano; nessun inno di popolo magnifica il trionfo dell’amore e della giustizia. Una certa analogia passa fra il tema dell’episodio finale: “Suon di gioia in sì bel giorno” ed il beethoveniano “Wer ein holdes Weib errungen”.

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